Una resistenza morale, culturale e politica alla deriva autoritaria, di Agostino Giovagnoli

La crisi della democrazia è ormai evidente anche nel suo principale baluardo degli ultimi decenni, gli Stati Uniti. Come accade anche altrove, infatti, viene qui oggi messo in discussione un principale fondamento: il diritto del popolo a scrivere le leggi con cui vuole essere governato. I numerosi executive orders emanati in pochi giorni dal presidente Trump hanno incrinato profondamente l’equilibrio tra i poteri esecutivo, legislativo, giudiziario. Quando un governo esonda dai suoi limiti, il primo che può reagire è il potere giudiziario, cui compete di far rispettare le leggi. Così è stato: un giudice federale ha sospeso la revoca presidenziale dello ius soli che ha fondamento costituzionale; un altro ha bloccato il congelamento di fondi per miliardi di dollari destinati a scuole, ricerca scientifica, ospedali e assistenza; un terzo ha fermato quello contro i dipendenti pubblici. Generalmente, lo scontro tra governo e magistratura – Elon Musk ha già cominciato ad attaccare i giudici – appassiona poco l’opinione pubblica. Ma i giudici non fanno le leggi, ne pretendono il rispetto: l’esecutivo li accusa di volersi sostituire agli altri poteri quando è chi governa a volerlo fare. Gli attacchi ai giudici segnalano dunque che è in arrivo qualcosa di più grave. Come ha detto il famoso politologo americano Fareed Zakaria «assistiamo a un assalto alla struttura costituzionale degli Stati Uniti. Il Congresso è il primo ramo del governo: quando stanzia dei fondi o approva una legge, non fa una raccomandazione o un suggerimento al presidente, gli sta dando un ordine che il secondo ramo deve eseguire fedelmente. Trump sta capovolgendo questo».
Naturalmente, gli executive orders trumpiani incontreranno molti ostacoli: non solo i tribunali, ma anche i governi dei singoli Stati, la stampa e i mass media, la società civile… Basteranno? Più di venti anni fa, proprio Zakaria ha coniato fa l’espressione “democrazie illiberali”. Tale definizione potrebbe far pensare che, anche eliminando gli elementi liberali della democrazia, qualcosa di democratico sopravvive comunque. Non a caso Orban ha sfidato i suoi critici applicandola con orgoglio al regime da lui creato. Ma non sono affatto democratiche le democrazie illiberali. Ad essersi sempre più indebolito negli ultimi decenni è il principale “corpo” che ha difeso la democrazia per tutto il Novecento: i grandi partiti politici. Il presidente americano può oggi espandere il suo potere perché il Congresso non è più protetto dal fortissimo legame con il popolo costituito in passato dal partito democratico e da quello repubblicano: il primo appare atrofizzato in una gestione sempre più oligarchica e il secondo svuotato dal totale appiattimento sul suo leader.
C’è anche un altro “corpo” – essenziale in ogni sistema democratico – ad essere oggi sotto attacco: le numerose agenzie federali create per realizzare in concreto l’applicazione delle leggi che il governo ha il dovere di eseguire (come dice la stessa definizione di potere esecutivo). Ma gli executive orders – la cui funzione dovrebbe essere quella di orientare la macchina dello Stato in questo complesso compito – trasmettono oggi direttive confuse, rendendo incerta l’azione dell’amministrazione pubblica e, soprattutto, creano un effetto paralizzante con la minaccia di licenziamenti di massa (a prometterli è, di nuovo, Musk). La motivazione ufficiale è che le agenzie federali sono piene di agenti corrotti o infedeli, ma non ci sono prove che questo sia vero. In realtà, si vuole eliminare la relativa indipendenza dalla politica di un’amministrazione pubblica chiamata dalla legge a garantire – chiunque governi – aspetti essenziali per la vita dei cittadini: sanità, istruzione, sicurezza, infrastrutture, assistenza… Come si vede, anche se gli obbiettivi sotto attacco sono molteplici, in definitiva è sempre il popolo il vero nemico di tutti gli autoritarismi. Il loro fine, infatti, è appropriarsi del potere che in democrazia spetta al popolo. Sempre in nome del popolo sovrano, naturalmente.
Ma, abbandonata la democrazia così come l’abbiamo conosciuta finora, che cosa si vuole costruire? Negli ultimi anni non è più la disruptive innovation a ispirare la Silicon Valley: le Big Tech hanno imparato a controllare la distruzione innovativa attraverso grandissime concentrazioni di potere. La stessa strategia viene oggi applicata per sostituire alla complessa costruzione dello Stato democratico enormi poteri che non devono più rispondere a nessuno. È una strategia che gli Stati Uniti oggi propongono anche all’Europa, duramente criticata a Monaco dal vicepresidente Vance perché qui sarebbero soffocate, insieme alla «libertà di parola», anche quelle «di sorprendere, di sbagliare, di inventare, di costruire». Lo dimostrerebbe il tentativo europeo di sanzionare i “contenuti d’odio” sui social media. Per l’attuale leadership americana democrazia coincide con libertà senza limiti, che però nei fatti significa sempre più spesso libertà del più forte di opprimere il più debole. Ma la democrazia si difende anzitutto contrastando la legge della giungla, come cerca di fare l’umanesimo europeo. Se non vogliamo trovarci presto in un day after in cui non sarà più possibile fare nulla, dobbiamo impegnarci adesso in una resistenza dal basso – diffusa, organizzata, tenace – anche morale e culturale oltre che politica.

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