Una bimba di nome Speranza, di Rocco D’Ambrosio

Buon anno, speriamo che…”. Così in molti auguri, di questi giorni, senza dimenticare che il Giubileo appena inaugurato ha come tema la speranza. Se conoscessimo bene cosa significhi sperare non diremmo così spesso “speriamo che…”. E forse ci chiederemmo di più: ma cosa speriamo? E come speriamo? La prima risposta non è poi cosi difficile: basterebbe sommare  guerre e omicidi nelle nostre città e case a tante piccole e grandi prove della nostra vita: se non sperassimo, saremmo estremamente… disperati! La seconda risposta, vista la difficoltà della domanda (come speriamo?), forse merita il tentativo di una riflessione, piccola.

Nel 1911 Charles Péguy, in uno dei momenti più bui della sua vita, compose un luminoso poema sulla speranza: “Le porche du Mystère de la deuxième vertu” (“Il portico del mistero della seconda virtù”). La seconda virtù, appunto, è la speranza. Nelle prime pagine, Péguy paragona le tre virtù teologali – fede, carità e speranza – a tre sorelle. La Speranza, per lui è una piccola figlia da nulla, “venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso”. La speranza, come piccola creatura, non penso che sia un tema solo per credenti, ma vista la sua portata antropologica, è un tema per tutti. Del resto, quando diciamo “speriamo che…”, donne e uomini di culture e religioni diverse, cosa ci accomuna? Speriamo sì, ma cosa e soprattutto come? Forse Péguy, anche se in un quadro cristiano, ha da insegnare a umani e donne di ogni religione e cultura.

Prima di tutto la speranza, anche per noi tutti, è spesso una bambina trascurata, magari richiamata in un augurio o una riflessione, ma facilmente dimenticata. E Péguy spiega perchè: 

“è sperare che è difficile e quel che è facile, ed è la tendenza, è disperare ed è la grande tentazione”. Scrive ancora Péguy che, sorelle della speranza, come dicevamo, sono la fede e la carità, ma queste sono facili. E pone in bocca al buon Dio le parole: “La fede non mi stupisce Non è stupefacente Risplendo talmente nella mia creazione. Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature… La carità va da sé. Per amare il prossimo c’è solo da lasciarsi andare, c’è solo da guardare una simile desolazione. Per non amare il prossimo bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio… Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce. Me stesso. Questo è stupefacente”.

E lo è ancora oggi, per tutto quello che stiamo vivendo. Sperare è difficile quanto stupefacente. Ma la speranza non è un augurio, è una virtù, ossia un atteggiamento costante. La speranza è responsabilità continua; è fedeltà costante a ciò che edifica le persone e la società. Ernst Bloch, provenendo da presupposti culturali tanto diversi, direbbe che “bisogna imparare a sperare”. E per farlo – scrive ancora Péguy – è necessario capire che spera chi impara a vedere e ad amare ”ciò che sarà”, a guardare “oltre la fissità del tempo presente”, a cogliere, con saggezza, il divenire. Spera saldamente chi fa nascere la sua speranza da un’inquietudine, che per Péguy è “quella del Buon Pastore di fronte alla pecora smarrita, il timore che possa perdersi e mancare all’appello della sera e che lo spinge a lasciare le pecore rimaste, i cento giusti restati nell’ovile in Fede e in Carità, per ritrovarla e aiutarla a tornare. L’inquietudine del Padre Misericordioso. Ferite, fragilità con i loro tremori e brividi, dalle quali zampilla la Speranza con i suoi fremiti”.

Mi sorprende un altro parallelo con Bloch, quando questi scrive: “L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono”.

Guardare oltre la contingenza, amare ciò che sarà, superare la paura, sperare come attività che coinvolge e mai isola, resistere con pazienza, sono tutti contenuti mentali ed emotivi che rendono autentica la nostra speranza. Altrimenti è la disperazione o lo stupido circo mediatico di chi, tra spazi politici e informativi, chiude il 2024 e apre il 2025, tra tanta stucchevole retorica, con mente e cuore a secco, visto che il loro carburante non è nemmeno acqua fresca.

Buon anno o come scrive Pèguy:

“La Speranza è una bambina da nulla.

Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso.

Che gioca ancora con babbo Gennaio.

Eppure è questa bambina che traverserà i mondi.

Questa bambina da nulla.

Lei sola, portando le altre, che traverserà i mondi compiuti. (…).

Tale è la forza di vita della speranza, bambina,

La forza di vita, la promessa, la vita, la forza di vita e di promessa

che sgorga nel cuore della speranza…

Singolare virtù della speranza, singolare mistero, questa non è

una virtù come le altre, è una virtù contro le altre.

Prende in contropiede tutte le altre. S’addossa per così dire

alle altre, a tutte le altre.

E tien loro testa. A tutte le virtù. A tutti i misteri”.

 

Rocco D’Ambrosio

[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]

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