Un nuovo ordine mondiale, di Federico Rampini

Ricevuto alla Casa Bianca, Macron ha detto di vedere «buone ragioni per cui Trump ha riallacciato il dialogo con Putin». Il presidente francese ha confermato che diversi Paesi europei sono disponibili a mandare truppe in Ucraina per garantire una tregua; ha aggiunto però che un appoggio militare americano rimarrà indispensabile per impedire che Putin torni ad attaccare in futuro. Sul deterrente americano aveva già espresso i suoi dubbi il futuro cancelliere tedesco Merz: ha rilanciato l’idea di allargare l’ombrello nucleare francese a tutta l’Europa. I partner (è in arrivo a Washington il premier britannico Starmer) navigano a vista; cercano di capire se i molteplici choc inflitti da Trump ai sistemi di alleanze dell’America siano il presagio di un nuovo ordine mondiale. Se sì, quale? 
La velocità con cui il presidente americano sembra aver mollato Zelensky, l’asprezza dei suoi insulti, i toni ricattatori con cui esige di farsi rimborsare gli aiuti con le risorse minerarie ucraine, il probabile successo di questi metodi brutali: tutto aggrava il senso di vertigini già creato dalle prime mosse contro Messico e Panama, Groenlandia e Canada. Amici e nemici, in America e nel mondo intero, stanno prendendo le misure del «metodo Maga» in politica estera.
 Putin sembra convinto di poter trascinare Trump verso una Nuova Yalta. Il modello è il vertice del 1945 in quella città della Crimea, che riunì i tre futuri vincitori della Seconda guerra mondiale: Roosevelt, Churchill e Stalin. Anche se non fu così esplicita, la Yalta di ottant’anni fa diede luogo a una divisione del mondo in sfere d’influenza, fra il mondo occidentale a guida americana e il blocco comunista sotto l’egemonia dell’Unione sovietica. Per Putin Nuova Yalta significa prima di tutto ridare alla Russia lo status di superpotenza; in secondo luogo riconoscerle il diritto alla sua sfera d’influenza, anche a costo di limitare la sovranità dei Paesi confinanti.
 In Cina alcuni esperti di geopolitica vicini a Xi Jinping auspicano qualcosa di simile. Attingendo al linguaggio della loro storia antica, parlano dell’avvento dei Tre Regni. Noi diremmo un G3, un direttorio mondiale dove America, Cina e Russia gestiscono le loro relazioni, stringono patti e negoziano compromessi, riducono le aree di conflitto, e in un certo senso si spartiscono il pianeta.
Sono visioni semplificate, perfino ingenue. Il mondo di oggi ha altri poli — Unione europea, India, Giappone, Arabia, Iran, Turchia — che nel 1945 non esistevano o non contavano, erano stremati dalla guerra o poverissimi. Ma dietro la Nuova Yalta o i Tre Regni affiora la speranza (di Putin e Xi) o il timore (di tanti altri) che Trump sia pronto a un cambiamento radicale: una politica estera fondata sui rapporti di forza, un pragmatismo estremo, una realpolitik cinica. Nella destra americana torna alla memoria la mossa spregiudicata del 1972 con cui il repubblicano Nixon aprì al comunista cinese Mao. Tra purghe, carestie, e una guerra civile travestita da rivoluzione culturale, Mao aveva sulla coscienza un bilancio di vittime molto superiore a Putin. Però il disgelo Usa-Cina — controverso all’epoca — venne poi considerato un colpo geniale di Nixon. Alla Cina aprì un futuro di progresso, sviluppo e benessere. L’America spaccò il fronte comunista e questo contribuì a favorire la sua vittoria finale nella guerra fredda.
Gli sconvolgimenti di questo primo mese di trumpismo si prestano anche ad altre interpretazioni. Lo storico Niall Ferguson li inserisce in uno scenario di ritirata strategica degli Stati Uniti, resa necessaria da un debito pubblico incompatibile con gli oneri di un impero militare planetario. Quest’analisi getta una luce nuova sulle prime tensioni tra Elon Musk e diversi settori dell’Amministrazione Trump nonché della maggioranza repubblicana al Congresso. Per esempio: i tagli dell’8% al bilancio del Pentagono, che Musk cerca d’imporre attraverso il suo Dipartimento dell’efficienza governativa, hanno una logica di risparmio e di efficienza. Però possono ostacolare la promessa dello stesso Trump: che l’America manterrà le forze armate più potenti della terra.
 Un altro storico e studioso di geopolitica non sospetto di trumpismo, Michael Kimmage, sulla rivista Foreign Affairs prova a immaginare una politica estera centrata sulla gestione spregiudicata del primato economico americano. In questo scenario Trump si focalizza sui seguenti obiettivi: espandere l’accesso delle imprese Usa ai mercati esteri; garantire l’approvvigionamento di risorse strategiche; continuare ad attrarre investimenti dall’estero; preservare la centralità del mercato finanziario Usa. Sarebbe coerente con la promessa fatta agli elettori: America First. In effetti la politica estera non figurava fra le priorità dell’ultima campagna elettorale, né fra le ragioni della vittoria di Trump. I suoi elettori vecchi e nuovi — inclusi i consensi recenti nelle minoranze etniche, tra i giovani e le donne — danno un giudizio severo sulla politica estera di chi lo ha preceduto. Né Barack Obama né Joe Biden seppero contrastare l’espansionismo di Putin. Anzi, i regimi russo e cinese hanno accentuato il loro nazionalismo e la repressione interna, beffando una politica estera americana che si voleva ispirata da valori etici. L’idea di Biden di una grande alleanza fra liberaldemocrazie per contenere gli autoritarismi è stata respinta come ipocrita dal Grande Sud globale, ivi comprese grandi democrazie di Paesi emergenti.
Talvolta i leader più cinici riservano sorprese positive, come appunto Nixon in politica estera. Trump però non sembra cogliere che una delle forze dell’America — oltre a economia, tecnologia, demografia — è il suo sistema di alleanze. Mentre Macron cercava di spiegarglielo, al Consiglio di sicurezza Onu l’America votava con la Russia sull’Ucraina, contro gli europei.

corriere.it/opinioni/25_febbraio_25/un-nuovo-ordine-mondiale-11795b2a-8385-4411-b20d-bb19b9598xlk.shtml?refresh_ce

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