“Ci devono ritornare il favore”, diceva Donald Trump, dopo aver chiesto/preteso che Egitto e Giordania aprissero le porte agli oltre due milioni di sopravvissuti di Gaza. Che si tratti di un’operazione immobiliare per svuotare la striscia, ricostruire e vendere al miglior offerente; o di una nuova moltiplicazione di profughi palestinesi in Medio Oriente, il presidente americano non lo precisa.
Trump parla vagamente di soluzione “temporanea o a lungo termine”. In uno dei progetti più seri per Gaza, www.palestine-emerging.org , del quale aveva dato conto l’anno scorso Il Sole 24 Ore, https://www.ilsole24ore.com/art/il-piano-internazionale-ricostruire-gaza-porto-reti-universita-e-stato-palestinesi-AFQ9YofD la ricostruzione non sarebbe ultimata prima del 2050. Secondo Banca Mondiale e Onu la sola rinascita delle quattro città più grandi della striscia, costerà 33 miliardi di dollari. Le case: infrastrutture e attività economiche a parte.
Ma come sempre, quando si parla di israeliani e palestinesi, futuro, progetti e crescita economica sono irrilevanti rispetto alla dimensione politica e militare del conflitto. Quel che conta ora è la tregua: se ci sarà una seconda fase, quanto durerà e cosa accadrà dopo, se la pace o di nuovo la guerra. In tutto questo, ad essere ora determinante è la visita dl Benjamin Netanyahu a Washington: cosa dirà a Donald Trump e soprattutto cosa Trump dirà a Netanyahu.
La prima fase della tregua funziona: entro la sua conclusione saranno consegnati da Hamas 33 ostaggi, otto dei quali morti. I 42 giorni stabiliti finiranno all’inizio di marzo. L’idea condivisa da tutti coloro che se ne occupano (Qatar, Egitto, regni ed emirati sunniti, europei, americani: almeno dell’amministrazione Biden) era che dovrebbe seguire una seconda fase, alla fine della quale inizino una pace e una trattativa sullo stato palestinese.
Senza averne la certezza, Hamas non libererà l’ultima quarantina di ostaggi israeliani tenuti per la seconda fase: uomini giovani che per i palestinesi sono “soldati”. In Israele dopo i primi tre anni di leva si rimane riservisti fino all’età di 50, a seconda delle mansioni.
A Netanyahu ha sempre importato poco il destino degli ostaggi nelle mani di Hamas. Conta di più restare al potere: in Israele fino a che c’è la guerra il comandante in capo non si cambia. E conta accontentare gli alleati della coalizione, i coloni, gli estremisti nazional-religiosi che vogliono continuare lo scontro fino a che i terroristi (presumibilmente anche i civili) non saranno “sradicati” da Gaza. Ie ultime immagini delle “cerimonie” di liberazione degli ostaggi circondati da centinaia di palestinesi armati, provano che la e-radicazione non è avvenuta in 15 mesi di guerra né che potrà mai accadere.
E’ questo il messaggio che Netanyahu, primo leader straniero ricevuto dal presidente in carica, ha portato a Trump: la guerra deve continuare. Assecondare le aspettative dell’israeliano significherebbe però deludere quelle degli arabi e rischiare di perdere importanti affari con i paesi del Golfo. In queste prime due settimane di potere, molto lascia credere che per Donald Trump diplomazia e geopolitica non siano che transazioni economiche.
Quando, pretendendo che Giordania ed Egitto si prendano due milioni di profughi palestinesi, Trump dice che l’America “fa molto per loro”, non ha torto: dopo Israele, i due paesi arabi più beneficiano dell’aiuto economico e militare americano. Ma è un investimento non solo politico anche per gli Stati Uniti: senza quell’aiuto Egitto e Giordania potrebbero passare alla Cina o essere destabilizzati dal terrorismo islamico e compromettere gli interessi americani. Ma per Trump anche i labirinti del Medio Oriente sono soprattutto una transazione fra debitori e creditori.
L’investimento immobiliare a Gaza non può essere fatto senza i soldi degli Emirati e soprattutto dell’Arabia Saudita. Una prima risposta a Trump gli arabi l’hanno data l’altro giorno al Cairo: Gaza non sarà svuotata dei suoi abitanti “in nessuna circostanza e con nessuna giustificazione”. Egitto, Giordania, sauditi, Qatar, Emirati, Autorità palestinese di Ramallah e Lega Araba si aspettano di lavorare con Trump “per raggiungere la pace in Medio Oriente fondata sulla soluzione dei due stati”. Il contrario di ciò che chiede Netanyahu.
Pretendere l’esodo di un popolo che già in gran parte vive in una diaspora drammatica da un’ottantina di anni, non è solo disumano. Significa ignorare la storia di questa regione. Per quanto i palestinesi non siano un popolo di migranti (a fatica ne troverete sui barconi che solcano il Mediterraneo), la brutalità degli israeliani e gli errori dei loro leader li hanno sparsi in tutto il Medio Oriente.
Sei milioni di profughi: alcuni di fatto, vivendo lontano dalla Palestina; altri formalmente profughi secondo una burocrazia complessa. In Giordania gli uni e gli altri sono più del 70% della popolazione: la regina Rania è palestinese, nata in esilio in Kuwait dove era fuggita la famiglia originaria di Tulkarem, in Cisgiordania; suo figlio Hussein, il principe ereditario, un giorno sarà un re giordano-palestinese. I circa 500mila palestinesi del Libano sono nelle stesse condizioni nelle quali hanno vissuto per secoli gli ebrei europei: non possono praticare decine di lavori né possedere terreni o immobili.
Questo popolo nuclearizzato non poteva che contribuire alla cronica destabilizzazione mediorientale: il Settembre Nero in Giordania nel 1970, la guerra civile libanese dal ’75 al ’90. Se i paesi riuniti al Cairo hanno detto no a Trump è perché sanno che gli israeliani non li faranno mai tornare; perché solo uno stato palestinese può civilmente risolvere questo centenario conflitto. E perché conoscono la potenza deflagrante di un popolo disperato.
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