Superare la logica della vendetta. La sofferenza dell’altro, di Lucia Capuzzi

Gli israeliani hanno diritto alla legittima difesa. I palestinesi hanno diritto alla legittima difesa. Perché due affermazioni indiscutibili continuano a perpetuare una guerra che si ripete con monotona tragicità da oltre 75 anni? Come ha fatto la legittima difesa a diventare un alibi per Hamas nel perpetrare un massacro atroce di civili israeliani, un’illegittima offesa le cui conseguenze sono ora fatte pagare agli abitanti di Gaza?
 Come si è arrivati a commettere atti che l’Onu definisce “crimini di guerra”? Chiunque viene in questo frammento di Medio Oriente sempre in costruzione con la speranza di trovare risposte ha sbagliato destinazione. Israele e dintorni sono una fucina di domande che ossessionano quanti percorrono questa Terra, resa dalla storia mosaico perennemente incompleto.

Da una parte c’è Israele con la sua galassia di insediamenti blindati dai muri e dai reticolati della paura. Un terrore vecchio di millenni di persecuzioni, di discriminazioni, di lutti. Dall’altra non c’è – ancora, ma si fa sempre più fatica a dirlo – la Palestina. Al suo posto, c’è la rabbia palpabile di un popolo troppo a lungo frustrato. Una rabbia senza futuro, condannata a esprimersi secondo l’identico copione di distruzione e autodistruzione. Su questa rabbia che gli imprenditori del terrore costruiscono i loro imperi di sangue. Sangue innocente.
 Sangue di indifesi. Israeliani, palestinesi, ucraini, armeni, congolesi, colombiani, haitiani, afghani, iraniani… Tutti gli individui e le comunità hanno diritto di proteggersi dalle vessazioni di invasori stranieri, di bande feroci, di regimi liberticidi.
Come spesso accade, però, un giusto principio, se assolutizzato, rischia di divenire motore di violenza senza fine. E di raggiungere l’opposto per cui è stato formulato. Le guerre nascono sul crinale sottile della legittima difesa e, piano piano, la trasformano in illegittima offesa. L’ultrasecolare conflitto israelo-palestinese ne è doloroso monito. Perché non ogni difesa è legittima. Lo dice il diritto internazionale. Per la Carta delle Nazioni Unite è un’eccezione al divieto dell’uso della forza. E, come tale, è limitato dai criteri stringenti della proporzionalità e della necessità.
Le norme, però, si prestano a molteplici – e spesso affatto disinteressate – interpretazioni. Ecco perché sono necessarie bensì insufficienti a regolare la vita delle collettività umane. Filosofie, religioni, movimenti culturali d’Occidente e d’Oriente discutono da sempre sui limiti della difesa, propria e altrui. “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?”. La domanda di Simone di Cafarnao, fatta su una via di questo pezzo di mondo, non ha perso di attualità duemila anni dopo.
La stessa Chiesa, da Agostino a Giovanni XXIII, se l’è rivolta più volte per comprendere appieno il “settanta volte sette” affermato da Gesù. Il frutto di questo percorso è sintetizzato e ampliato in “Fratelli tutti”, documento magisteriale del Papa che ha scelto di portare il nome di Francesco, instancabile costruttore di pace. «Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale», scrive il Pontefice. Il fatto – aggiunge – è che «ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l’ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
Per non fermarsi alle formulazioni astratte, Francesco propone nell’Enciclica come nella preghiera di ieri, di prendere contatto con le ferite, toccare la carne di chi subisce le conseguenze, rivolgere lo sguardo ai civili massacrati come “danni collaterali”. Ecco, israeliani e palestinesi – a cui nessuno nega il diritto di difendersi – potrebbero cominciare da lì. La chiave per uscire dalla gabbia del proprio dolore, dalla camicia di forza della guerra eterna, forse, è guardare la sofferenza dell’altro, anche solo per cinque minuti. Dal farsi carico del male reciprocamente inflitto da troppo tempo, potrebbe nascere la forza di mettere fine all’illegittima offesa.
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-sofferenza-dellaltro

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Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.


 

 

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