Martin Luther King aveva chiara la visione della differenza di passo tra chi si lascia affascinare dal rumore dell’effimero, da un presente ricco di gloria, successo, denaro e chi invece marcia seguendo un altro ritmo, il ritmo di tamburi lontani, un suono difficile da percepire in mezzo al chiasso che ci circonda. Eppure alcuni lo sentono, lo fanno proprio e cominciano a procedere con un passo diverso che stupisce tutti, che a volte scandalizza.
Tuttavia, possiamo scommetterci, un giorno non molto lontano sarà quello il ritmo con cui marceremo verso un mondo in cui le atroci ingiustizie che oggi cerchiamo di non vedere, coprendoci gli occhi e tappando le orecchie, non avranno più cittadinanza.
Quindi bisogna cercare di mettersi in ascolto di quei tamburi lontani. Mi è sembrato interessante intervistare qualche persona che ha il dono di sentire da tempo quel ritmo ed ha deciso di camminare a quel passo.
La prima è MariTè K, il nome così strano che suona come nome d’arte, ed in effetti lo è, le è stato dato da Chiara Lubich, affettuosamente, quando era ragazzina ma già ricca di talento per il canto e per la musica.
- MariTè, i tuoi genitori sono venuti in Italia dal Congo quando era ancora definito Zaire. Non entro nel merito della travagliata storia del Paese d’origine dei tuoi, che facilmente possiamo apprendere da fonti storiche, piuttosto ti chiedo cosa hanno fatto quando erano qui e come mai vi siete ritrovati ad aderire al Movimento dei Focolari
- Mio padre è arrivato qui per primo all’età di vent’anni, a metà degli anni ’70, e mia madre lo ha seguito qualche tempo dopo. Mia madre era già insegnante di francese e di inglese in Congo, mio padre si è laureato in sociologia qui, in Italia. Entrambi si sono sentiti interpellati dal bisogno di aiuto che avevano i loro connazionali. In particolare mia madre che, insieme con una mia zia ginecologa, ha fondato a Roma un’associazione per aiutare le donne che erano state vittima di violenza in Congo, purtroppo violentate come arma di guerra, ed arrivavano in Italia senza conoscere nulla della nazione di arrivo, della cultura e della vita sociale o addirittura del clima di questo Paese. Lentamente, prodigandosi per gli altri ed aderendo al Movimento dei Focolari, i miei genitori e mia zia sono diventati figure di riferimento della comunità congolese a Roma. Quando avevo 17 anni ci hanno proposto di entrare nell’associazione Tam Tam d’Afrique ed io ne sono stata entusiasta, perché non c’è niente di più gratificante ed importante che aiutare chi soffre. Così ho deciso di utilizzare la mia esperienza in campo musicale per realizzare a Roma una notte di musica, Night for Women, che si è tenuta per tre anni, a scopo di raccolta fondi per l’alfabetizzazione delle donne in Congo, perché l’ignoranza è una delle cause fondamentali dell’incapacità di difendersi di fronte alle ingiustizie, ma soprattutto per sensibilizzare la gente sul problema della violenza alle donne nei Paesi dilaniati dalla guerra come anche in tutto il resto del mondo.
- Sei anche una cantautrice e so che racconti nella tua musica la vita dei poveri, dei disperati, degli stranieri non accettati, anche nel tuo ultimo album Telling Stories. Secondo te, cosa vuol dire essere straniero? Non ti sembra che in questo mondo che sarà sempre più ed in breve tempo multietnico, le barriere nazionali, specie quelle che vogliono raffigurarsi come muri di incomprensione, ormai costruiti fuori tempo massimo da nostalgici di un vecchio mondo che sta morendo, avranno sempre meno senso? Ricchezza e povertà, i cui concetti possono ribaltarsi se riferiti al senso morale, non saranno più da una sola parte e forse non manca molto al momento in cui gli europei migreranno in Africa per trovare lavoro.
- Per quanto riguarda la mia musica a me piacerebbe cantare di amore ma non ci sono solo le storie di amore. C’è anche il clochard che è stato bruciato, ci sono anche le ragazze che, convinte di seguire un ragazzo che le ama, arrivano in Europa e sono costrette a prostituirsi. Bisogna parlare di queste cose. Perché è importante non dimenticare, capire fino a che punto la società possa essersi deteriorata. Se dei minorenni bruciano un clochard sta succedendo qualcosa di terribile! Di fronte a questo non possiamo voltare la testa dall’altra parte. E la musica è un mezzo privilegiato attraverso il quale puoi toccare temi molto profondi e farli giungere ai giovani o alle coscienze assopite della gente.
Per quanto concerne il mondo multietnico io sono d’accordo con te, ma non so se faremo in tempo noi di questa generazione a vederlo già in pace.
Accenni al lavoro che gli europei cercheranno in Africa, ma già avviene adesso. Sono in un gruppo che si chiama Vado in Africa in cui ci sono molti ragazzi e ragazze che decidono di andare a lavorare sia in campo tessile che in campo informatico che in campo agricolo, in Africa.
- Un’ultima cosa. Tu non ti dedichi solo alla musica, ma sei musicoterapeuta e mindfulness coach. C’è tanta gente che ha bisogno di ritrovare sé stessa, vero?
- Si, ci sono tante persone che hanno subito violenza morale e che hanno bisogno di tornare a credere in sé stesse. In particolare si tratta di donne sottoposte a forme di linciaggio morale da parte del loro partner, un problema molto più diffuso di quanto non si pensi e spesso taciuto dalle vittime. Ma c’è anche qualche uomo che ha bisogno di ritornare ad aver fiducia in sé. Sono molto contenta quando vedo gli uni e le altre riprendersi e cominciare a camminare con le loro gambe.
- Ti piacerebbe tornare in Congo a vedere la terra dei tuoi genitori?
- Certo, ci andrò appena sarà possibile. Ho lì ancora diversi parenti. Il Congo è un Paese splendido dal punto di vista naturalistico ma ciò che è più dirompente è la gioia di vivere. La gente lì è piena di gioia di vivere. Una cosa grande!
Ringrazio MariTè K, sono tante le riflessioni che ha suscitato in me. La più grande è l’inaspettato riferimento alla gioia di vivere della gente vissuta per decenni in un Paese dilaniato come il Congo. Qui, nel mondo che non ha guerre, che non conosce la fame, che ha un discreto grado di benessere economico generalizzato, abbiamo ancora gioia di vivere?
Concludo riportando alcuni stralci di una canzone da Telling Stories: You don’t know what it means to be hungry for weeks / you don’t know what it means to be cold in the street / you say that you wanna help / but it’s just a way to clean yours sins, Babe / In a world that’s moving fast /
I don’t wanna loose my innocence / and I try to keep the hearth of a child / I want to see what’s wrong around me / In this materialist society / Babe let’s run away from here / because I’m going craze /
I don’t recognize this world / we’re going down down down ….