Con i microcosmi sempre più micro in un cosmo sempre più turbolento e preoccupante potrà sembrare un cercar rifugio in un terzo racconto della società. Parto dal mio ultimo viaggio a Sud in occasione del seminario finale per la Formazione dei Quadri del Terzo Settore destinato alle regioni del Mezzogiorno. Nell’Atlante dell’economia sociale (Caselli), dilata in 150mila organizzazioni con mezzo milioni di addetti con tanto senso e scarso reddito, quella economia fondamentale che, nella crisi del welfare, infrastruttura la vita quotidiana. In tempo di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini mi pare utile il racconto della proliferazione dei processi di autorganizzazione ed intervento
di questo mondo.
Tre le parole chiave della mia riflessione su quale debba esser oggi la funzione dei corpi intermedi di un Terzo Settore che non viene più dopo il primo e il secondo, ma che deve fare un terzo racconto in grado di mettersi in mezzo tra stato e mercato, tra economia e politica mettendo nel mezzo la società e che si mette in mezzo ad una società dove sempre più domina la potenza dei mezzi inseguita affannosamente. Basta pensare al dibattito sull’Intelligenza Artificiale e alle implicazioni che questo ha sul rapporto tra comunità e community, tra prossimità e simultaneità, paradigmi interroganti chi ritiene che la comunità si fa attraverso i social e contando i follower. Ragionare su cosa significhi tutto ciò è inevitabile, perché è vero che la piattaforma digitale è accogliente ma non bisogna dimenticare che si è difronte al «padrone dell’algoritmo» un padrone reale e non virtuale. Ecco allora che insieme alla parola comunità la seconda parola delicatissima da considerare è istituzioni a cui aggiungere un ragionamento sulle istituzioni di comunità (Esposito).
La proliferazione importantissima del terzo settore che ormai è anche stampella necessaria alla crisi istituzionale-politica e alla crisi di rappresentanza comporta il dover decidere se questo racconto debba «stampellare» queste crisi o delineare una dimensione di istituzioni che vengono avanti a partire dalla rete di relazioni del territorio. La parola comunità da sola non basta, occorre qualificarla. La comunità deve essere una comunità di cura larga, una comunità contaminatrice, poiché essere soggetto-attore delle istituzioni di comunità significa prendere coscienza del venire avanti delle comunità del rancore rinserrate, chiuse, all’opera là dove le comunità di sangue, suolo e religione fanno guerra, comunità impaurite rispetto ai grandi cambiamenti. Certo c’è la comunità di cura (volontariato, associazionismo, terzo settore, cooperative etc.) ma questa non è sufficiente. Se si vuole andare verso un terzo racconto occorre ragionare di una comunità di cura larga che parta dalla voglia di comunità (Bauman) contaminando le rappresentanze tradizionali del ‘900 (sindacati, rappresentanze del commercio, Pmi etc.) e il nuovo terziario delle professioni tra cui «i grandi comunicatori».
Costruire istituzioni della comunità vuol dire essere altra cosa dagli influencers sapendo che gli insegnanti così come i medici, gli psichiatri, gli psicologi etc. che si occupano di disagio sociale sono componenti importanti della comunità di cura. Cura larga che genera embrioni di istituzioni di comunità che vengono avanti per incidere di più in un grande salto epocale che opera per un nuovo modello di sviluppo a partire dai temi della crisi ecologica e della tecnologia, a proposito di potenza dei mezzi e carenza dei fini. Sapere che si deve esser dentro ai processi di cambiamento nonostante la crisi della politica con la voglia di non essere più «stampella» ma costruttori di istituzioni future ponendo il tema della rappresentanza del terzo settore in quanto creatore di forme nuove di senso e reddito. Infine, per contare di più non basta rammendare differenze e lacerazioni sociali ma anche un po’ di conflitto per cambiarle.
Mai come oggi proprio nel Mezzogiorno il capitale sociale che viene prima dell’economia è fondamentale, avendo memoria di esperienze minoritarie da operatori di comunità utili oggi per capire come essere social agent. La prima, è sicuramente quella dell’agire empaticamente rispetto alla dimensione delle fragilità e ai soggetti sociali. Empatia necessaria che però non deve esser confusa con la simbiosi: «innamorarsi a fondo perduto del proprio oggetto di lavoro», perché questo va portato ad assumere voce e capacitazione (Amartya Sen). Da qui il grande interrogativo sul come contare di più nel fare ed essere rappresentanza giacché non è sufficiente coprogettare con coloro che sono in crisi e nella crisi ma occorre prendere parola e dar voce ad un terzo racconto per cambiare.
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