Quasi 13 milioni di sfollati, centinaia di migliaia a rischio carestia, un numero imprecisato di vittime e insicurezza alimentare per metà dei 51 milioni di sudanesi, tutti inevitabilmente alle prese con la peggior crisi umanitaria al mondo: è un bilancio drammatico quello descritto da Ong e Nazioni Unite in occasione del secondo anniversario dallo scoppio della guerra in Sudan. Un conflitto, ribadiscono, in cui i civili continuano a pagare anche il prezzo dell’inazione della comunità internazionale, distratta da altre crisi, tra cui le guerre in Ucraina e a Gaza. Nel conflitto si sono verificate violazioni “su larga scala” del diritto internazionale umanitario, ha ribadito Daniel O’Malley, capo della delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Sudan, sottolineando che “tutta la popolazione civile, indipendentemente da dove si trovi nel Paese, è rimasta sostanzialmente intrappolata tra una, due o più fazioni. E ha sopportato il peso di tutto. I numeri sono semplicemente sbalorditivi”. Le timide speranze di una via d’uscita diplomatica, dopo la riconquista di Khartoum da parte dell’Esercito sudanese poche settimane fa, si sono via via affievolite e oggi le violenze continuano a infuriare in gran parte del paese. Lo scorso fine settimana oltre 400 persone sarebbero state uccise negli attacchi delle Forze di supporto Rapido (Rsf) a El Fasher, ultimo capoluogo del Darfur che sfugge al loro controllo.
Lotta di potere?
La guerra che infuria da oramai 24 mesi affonda le sue radici in una lotta per il potere tra due uomini forti del comparto militare sudanese: il capo dell’esercito (Sudanese Armed Forces, Saf) e leader dell’ex governo di transizione istituito dopo il colpo di stato del 2021, il generale Abdel Fattah al-Burhan e il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo noto come Hemedti leader delle milizie paramilitari Rsf. I due, che – nel più ampio contesto della rivoluzione sudanese iniziata nel 2018 – si erano alleati per rovesciare l’ex presidente Omar al Bashir con un colpo di stato che nell’aprile 2019 aveva posto fine a tre decenni di dittatura, avevano deposto due anni dopo il governo civile che avrebbe dovuto traghettare il Sudan verso la democrazia. La tensione tra i due generali per il controllo del potere è infine scattata il 15 aprile 2023 con scontri tra le due fazioni che sono presto degenerati in guerra aperta. In due anni di conflitto, sia le Rsf che l’esercito sono stati accusati di crimini di guerra contro la popolazione civile, presa tra due fuochi. Nel gennaio di quest’anno gli Stati Uniti hanno accusato formalmente le Forze ribelli guidate da Hemedti di aver commesso un genocidio contro le popolazioni non-arabe del Darfur. L’accusa – ritenuta verosimile da molti – fisserebbe un altro triste primato: quello di un doppio genocidio perpetrato nella regione in meno di 30 anni. Nel mentre, la crisi si sta espandendo, con il suo carico di insicurezza, sfollamenti e la conseguente pressione umanitaria anche nei paesi vicini come il Sud Sudan, dove l’arrivo di persone in fuga aumenta la pressione su risorse già scarse, aggravando tensioni e minacciando un già fragile cessate il fuoco.
Attori esterni coinvolti?
Nei mesi scorsi, le accuse rivolte ad attori esterni di fomentare il conflitto, circostanziate in vari report delle Nazioni Unite, sono state alimentate anche dall’episodio relativo al ritrovamento di passaporti emiratini sul campo di battaglia nei pressi di Omdurman. Gli Emirati Arabi Uniti, sospettati di aver armato e supportato le Rsf, hanno negato ogni coinvolgimento, ma gli osservatori hanno descritto la scoperta come una “pistola fumante” che sfida le smentite e solleva interrogativi su ciò che gli Stati Uniti e la comunità internazionale sapessero del livello di coinvolgimento di attori esterni nel conflitto. Inoltre, prove documentate mostrano che gli Emirati avrebbero fornito alle Rsf droni modificati per sganciare bombe termobariche, la cui letalità è tale da averne determinato la richiesta di una messa al bando. In cambio di droni e armi all’avanguardia gli Emirati Arabi Uniti riceverebbero dalle Rsf ingenti quantitativi di oro proveniente dalle ricche miniere del Darfur. Allo stesso modo, seppur in modo meno sistematico, anche l’esercito sudanese avrebbe ricevuto aiuti da potenze estere. Al punto che, dopo mesi di inazione, intervallata da dichiarazioni di condanna, diverse organizzazioni umanitarie si sono chieste se l’Occidente abbia fatto abbastanza per frenare il sostegno di attori esterni alle milizie sul campo. Un’accusa ripresa dal quotidiano The Guardian, che in un lungo articolo-inchiesta avanza dubbi sul fatto che il Regno Unito, impegnato in colloqui per finanziamenti miliardari da parte di Abu Dhabi abbia anteposto i propri interessi agli appelli per il paese africano.
Il mondo si gira dall’altra parte?
In un’epoca di nazionalismi crescenti pochi paesi sembrano disposti a spendersi per mantenere la solidarietà globale al centro dell’agenda. In nessun luogo questo è più evidente che in Sudan, dove nonostante le promesse di miliardi di aiuti le casse delle agenzie Onu per l’assistenza umanitaria sono drammaticamente vuote. A denunciarlo è Leni Kinzli, responsabile delle comunicazioni del Programma Alimentare Mondiale per il Sudan, secondo cui, nonostante gli allarmi, il livello dell’attenzione internazionale nei confronti del Sudan resta basso e intermittente. In soli due anni, più di 90 operatori umanitari, quasi tutti cittadini sudanesi, sono stati uccisi. “Non dovrebbe esserci competizione tra le crisi. Ma purtroppo stiamo vedendo che, con tutto quello che sta succedendo nel mondo, altri conflitti, altre crisi umanitarie e altre cose che finiscono sui giornali, il Sudan è – non lo definirei nemmeno dimenticato – ignorato”. A questo stato di cose, inoltre, va ad aggiungersi lo smantellamento dello USAID deciso dal governo americano, che sta costringendo gli operatori a ridimensionare i progetti di aiuto anche nei paesi in guerra. In concreto, per il Sudan, questo significa che le vittime di violenza sessuale hanno smesso di ricevere il sostegno di cui hanno bisogno, che i programmi di alimentazione e vaccinazione sono stati sospesi e sempre più bambini muoiono di fame e malattie. E che il mondo – come denuncia Erika Guevara Rosas di Amnesty International – “non si vergogna più di voltarsi dall’altra parte mentre il Sudan brucia”.
Commento
“Di fronte agli sviluppi militari con alterne fortune sul terreno – compresa la recente presa di Khartoum e di altre aree del paese da parte delle SAF in una netta controffensiva negli ultimi mesi – entrambe le parti rimangono determinate a ricercare una vittoria militare; un proposito che potrebbe non solo incancrenire ulteriormente il conflitto in zone dove già si combatte, come il Darfur, ma anche portarlo in parti di paese, come il nord, che fino ad ora ne erano rimaste relativamente immuni. La scarsa volontà negoziale e l’estrema complessità degli attori coinvolti contribuiscono a fiaccare la portata delle iniziative di mediazione, mentre le conseguenze del conflitto riverberano sui paesi vicini, come si vede in queste settimane in Sud Sudan. A due anni dal suo inizio, il conflitto in Sudan conferma i timori sulla sua enorme portata destabilizzatrice, anche oltre i confini del paese.”
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