Su Ventotene dalla premier una provocazione strumentale, di Vittorio Pelligra

L’operazione messa in atto dalla Presidente del Consiglio sembra ispirata da un misto di arroganza, malafede e smaccata ignoranza. Citare, come ha fatto Giorgia Meloni, il Manifesto di Ventotene in quella maniera è come citare il Vangelo dove leggiamo, tra le altre cose, «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada» (Mt 10,34) e concludere che Gesù è un estremista guerrafondaio.
È chiaramente una provocazione, una mossa strumentale che può avere presa su molti, purtroppo, in particolare su chi non conosce la storia del nostro Paese e la vita di coloro che hanno redatto quel manifesto. Erano dei giganti che Mussolini codardamente aveva condannato al confino per paura delle loro idee. Idee che per fortuna e grazie al loro coraggio e a quello di Ursula Hirschmann e Ada Rossi superarono i confini dell’isolotto e cambiarono la storia.
Andando più nel merito, se la Presidente ha letto la biografia di Altiero Spinelli, uno degli estensori del Manifesto, ha sicuramente modo di comprendere il contesto e la natura di quel documento, così superficialmente disconosciuto in diretta nazionale. Scrive Spinelli: «Nel tetro inverno ’40-’41, quando quasi tutta l’Europa continentale era stata soggiogata da Hitler, l’Italia di Mussolini ansimava al suo seguito, l’Urss stava digerendo il bottino che era riuscita ad afferrare, gli Stati Uniti erano ancora neutrali e l’Inghilterra sola resisteva, trasfigurandosi agli occhi di tutti i democratici d’Europa in loro patria ideale, proposi a Ernesto Rossi di scrivere insieme un “manifesto per un Europa libera e unita”, e di immetterlo nei canali della clandestinità antifascista sul continente (…) Mi sono spesso chiesto cosa abbiamo apportato di originale nel Manifesto. Non dicevamo cose nuove, né quando parlavamo della crisi della civiltà europea, né quando presentavamo l’idea della federazione. Altri l’avevano già fatto, certamente meglio di noi».
Poi Spinelli aggiunge una considerazione che rende la citazione della Meloni ridondante e ne evidenzia la malafede: «Il Manifesto conteneva inoltre alcuni errori politici di non lieve portata – continua Spinelli -. Il primo era l’ottimismo di tutti coloro che lanciando una nuova idea credono sempre che essa sia di imminente realizzazione. Poiché però questo errore si ritrova dal Vangelo che credeva di essere impostato tutto sull’idea dell’imminente fine del mondo, al Manifesto del partito comunista che credeva di essere fondato anch’esso tutto sull’imminente rivoluzione socialista, si può considerare veniale l’errore identico del Manifesto federalista».
Più grave era il fatto che non avevamo in alcun modo previsto che gli europei, dopo la fine della guerra, non sarebbero rimasti più padroni di sé nella ricerca del loro avvenire, ma, avendo cessato di essere il centro del mondo, sarebbero stati pesantemente condizionati da poteri extraeuropei. Tutta la parte finale che invocava la necessità di un partito rivoluzionario federalista si è anche rivelata caduca, perché l’esigenza, giusta, della necessità di guidare e non di seguire le masse e i loro moti, era espressa ancora in termini troppo rozzamente leninisti. É lo stesso Spinelli che ammette e riconosce i limiti della forma del Manifesto. Per poi sottolineare come rimanesse un testo vivo «grazie a due idee politiche che gli erano proprie: la prima era che la federazione non era presentata come un bell’ideale cui rendere omaggio per occuparsi poi d’altro, ma come un obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire ora, nella nostra attuale generazione».
La seconda idea significativa consisteva «nel dire che la lotta per l’unità europea avrebbe creato un nuovo spartiacque fra le correnti politiche, diverso da quello del passato». Qui arriva poi la parte che Meloni avversa maggiormente, e per la quale occorre fare in modo che il Manifesto venga condannato senza essere letto: «La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari – afferma ancora Spinelli – cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».
Ecco, il Manifesto di Ventotene fa chiedere a chi governa per cosa usi il suo potere. Personalmente, mi auguro che prima o poi Meloni si scusi per aver provato a disonorare la memoria di quei grandi uomini. Così come fece pubblicamente Sandro Pertini quando – al Quirinale, da Presidente della Repubblica – prese la parola e si scusò con Spinelli per aver inizialmente aderito al Manifesto e per aver successivamente ritirato la sua adesione a seguito delle pressioni fattegli dai compagni di partito. E stiamo parlando di Pertini. L’autobiografia di Spinelli è intitolata «Come ho tentato di diventare saggio», quella di Meloni, invece, «Io sono Giorgia». Qualcosa vorrà pur dire.

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