Il quartiere Egipto sorge sul pendio del monte Monserrate, nella periferia sud-orientale di Bogotà.
Carmen mi ha dato l’appuntamento alla chiesa di Nostra Signora d’Egitto, da cui la zona prende il nome e da dove si abbraccia l’intera capitale della Colombia: in fondo svettano i grattacieli, appena sotto c’è la Candelaria, la zona coloniale e festosa, piena di locali e di gente che suona, balla, fa acquisti.
Nella parte iniziale del rione, che è chiamato anche la Decima, le case hanno le facciate rallegrate da murales; a differenza di quello che succede spesso in questa parte di mondo, però, attorno a dipinti di animali e a grandi ritratti non ci sono botteghe, negozi, persone che chiacchierano o preparano da mangiare. Carmen conferma: qui non c’è niente, non una farmacia né le scuole né un emporio qualsivoglia. Nessuna attività. Visibile, per lo meno
In cima alla salita la Decima cambia faccia. La via principale si dirama in stradette che curvano formando angoli disarticolati: in un lampo finiscono l’asfalto e i colori, l’allegria festaiola della Candelaria pare lontana non una via ma decine di chilometri di possibilità, di scelte, di vite. Le abitazioni si fanno instabili e malferme; sono costruite giuntando assi di legno e pezzi di lamiera, anche i tetti sono di lamiera ondulata. Tra le file di case si creano percorsi sconnessi di spazzatura, pantano e terra, tanto angusti che le vie paiono corridoi contornati da rigagnoli d’acqua marroncina.
La Decima è povera, marginale. E abusiva. È cresciuta un po’ alla volta: man mano che arrivavano delle famiglie nascevano costruzioni che si ancoravano al pendio salendo verso la vetta del Monserrate.
Perché questo posto è così?
Perché la storia recente della Colombia è brutale. Per oltre mezzo secolo paramilitari, narcotrafficanti, guerriglieri di ispirazione comunista e governo corrotto si sono combattuti e a tratti alleati per conquistare il potere, il controllo del territorio e quello dei commerci, in primis quello della cocaina. Il conflitto armato ha disintegrato tutto quello che trovava sul suo cammino: otto milioni di persone sono scappate dalle loro case e dalle loro terre (erano in prevalenza coltivatori di campagna e di montagna) per non essere ammazzate e per non finire in mezzo alle sparatorie tra i cartelli della droga. I «desplazados», cioè gli sfollati, sono spesso vittime dei trasferimenti forzati: persone che per restare in vita in 48 ore hanno dovuto abbandonare tutto quello che avevano. Molti, non sapendo dove andare, si sono attaccati ai bordi delle grandi città. Bordi che, nel caso di Bogotà, coincidono con i fianchi della Cordigliera. Quando le baracche sono diventate centinaia il governo, anziché sgomberare (per metterli dove?), ha regolarizzato la situazione, dando un numero alle strade e qualche servizio alla comunità: corrente, gas, acqua.
Diversa la faccenda dell’asfalto. Solo la via principale, che sale ripida, ha un fondo solido: sono stati gli abitanti a insistere con l’amministrazione pubblica per avere la pavimentazione, perché con quell’inclinazione e in terra battuta i veicoli non riuscivano a salire. Però quella strada era fondamentale, e sapete perché? Perché serviva alle donne. Loro, dopo ogni scontro degli uomini con le bande rivali, avevano un compito: trasportare su lettighe improvvisate morti e feriti. Avere l’asfalto significava che le ambulanze potevano avvicinarsi. Significava fare più in fretta. Salvare più vite.
Carmen ha 45 anni ed è una donna della Decima. Qui è nata e sotto questo spicchio di cielo abbandonato dai sogni ha sempre vissuto: nel suo quartiere non ci sono alberi, caffetterie, panchine, parchi giochi; qui si fa prima a trovare un chilo di pallottole che di pomodori, le uniche attività produttive sono furti ed estorsioni e i bambini copiano da genitori e fratelli il mestiere di assaltare armi in pugno, perché non ci sono altri modelli a cui ispirarsi. In questa voragine sociale e politica si nasce, si cresce e si muore delinquenti.
E non è finita. La montagna è divisa in quattro zone: la Decima, la Nona, la Ventunesima e il Parejo, con la medesima radice di insediamento illegale e con un presente di precarietà morale e degrado materiale. In queste pendici si è incuneata, con l’impatto di un meteorite, la guerra urbana. Ogni area combatte contro quella vicina per la supremazia sul territorio e sui mercati di stupefacenti, armamenti, prostituzione. E lo fa sparando, tendendo agguati, ammazzando.
«Se sei della Decima non puoi mettere piede nel Parejo. C’è sempre qualcuno pronto ad attaccarti», dice Carmen.
Le chiamano «frontiere invisibili» e sono invalicabili. Ma non ci sono indicazioni da nessuna parte: o lo sai o peggio per te.
Anche il Calabazo è nato qui. Ha un anno meno di Carmen e si chiama Jaime: Calabazo è un soprannome e vuol dire «Zuccone».
«Io e i miei fratelli ci chiamavamo “los pilos”, che in gergo significa “i molto astuti”. Ho combattuto per 22 anni». Fino a quando fu arrestato. Cioè, non era la prima volta e non era una stravaganza, anzi, tutti qua hanno fatto la galera. Quando finì dentro, dei suoi sette fratelli era rimasto vivo solo lui.
In prigione, dei «colleghi» gli raccontarono che a Medellin erano nati progetti di risanamento basati sul turismo. Qualche tempo prima, nella città più pericolosa della nazione – quella, per intenderci, di Pablo Escobar – era nata un’associazione il cui scopo era dare agli abitanti dei quartieri violenti un modo di guadagnare alternativo alla delinquenza. Decisero di provare a trasformare quelle zone in un tessuto di storie da raccontare; decisero che a raccontarle sarebbero stati gli stessi gangster, che così avrebbero avuto uno scopo e un salario che non affondassero nell’illegalità. Quanto ai turisti, non avrebbero fotografato delle bellezze artistiche ma avrebbero incontrato in maniera sicura un mondo altrimenti inavvicinabile. Una bella scommessa: a chi sarebbe interessato andare a camminare per quelle strade fangose? A chi sarebbe interessata la storia di quelle vite spezzate? Domande alle quali risposero gli stranieri. Che arrivarono. Prima pochi, poi qualcuno in più, poi parecchi. Portarono denaro e portarono cambiamento. E si iniziò a sparare di meno.
«Quando esco lo faccio anch’io», decise il Calabazo. Tornò a casa e si diede da fare. Bussò a porte su porte finché trovò dei partner, tra cui l’Università, che lo aiutarono a impostare la proposta, a formare le guide, a fare pubblicità, a spiegare: mica facile convincere uno a cui hanno ucciso padre, sorelle e cugini a mettersi a studiare anziché oliare la vendetta.
Breaking borders significa «Spezzare le frontiere» ed è nato nel 2016. Nella Decima, periferia ex abusiva di Bogotà, 2.700 metri di quota sulla Cordigliera orientale delle Ande. A dimostrazione del fatto che nella vita ci vogliono zucconi testardi che non mollano mai.
Carmen ha una giacchetta arancione sulla cui manica c’è il logo dell’organizzazione: per farsi riconoscere da me e perché vedendomi gli abitanti non pensino che la straniera sia arrivata per errore e sia quindi rapinabile. Perché il rione sicuro non è, se non ci sei nata. Miglioramento non significa magia. Però significa speranza: parola che prima non oltrepassava le lamiere delle baracche. E significa passi.
Breaking borders ha ricevuto dei riconoscimenti nazionali e internazionali: per la prima volta il quartiere è stato citato dai media come modello e non per un regolamento di conti. Un passo.
Con i guadagni dei tour ogni anno si comprano quaderni e libri per i bambini, che così vanno a scuola. Un passo.
Sono stati costruiti un campetto da calcio e un edificio dove si tengono laboratori di falegnameria e saldatura: domani in Colombia ci saranno qualche calciatore e qualche carpentiere in più e qualche ladro in meno. Un passo.
Qualche tempo fa la Ventunesima ha chiesto un incontro. Con quel loro sistema infallibile di vedere senza entrare, di sapere senza parlare, i rivali si sono resi conto che l’affare dei vicini/nemici è redditizio. Gli stranieri vanno, pagano le visite, fanno pure dei regali: chi un murale, chi un ponte.
Si sono incontrati. «Vogliamo farlo anche noi», hanno detto.
Da allora, i due quartieri hanno deposto le armi e lavorano insieme. La Ventunesima ha messo in piedi la sua organizzazione di turismo comunitario e adesso bambini, adulti, donne, giovani sono liberi di spostarsi: chiunque ne abbia voglia o bisogno può andare dalla Decima alla Ventunesima e viceversa.
Una frontiera invisibile non esiste più.
*Giulia Tabacco, storica e antropologa di formazione, è editor, fotografa e traduttrice free lance. Dal 2004 collabora con numerose case editrici (tra le quali Skira, Rizzoli e Mondadori), riviste (Il Mulino) e realtà culturali e sociali. Ha realizzato reportage in Siria, India, Senegal, Messico e Australia, centrati in prevalenza su aspetti sociali, culturali e artistici.
Articolo di Jacobin Italia del 31 agosto 2004