Nei giorni scorsi ho avuto modo di incontrare un gruppo di giovani dai diciotto ai trentadue anni di una comunità parrocchiale, per un momento di riflessione e dialogo sull’identità. Il viceparroco che segue il percorso formativo dei giovani mi ha chiesto di parlare dell’identità da un punto di vista filosofico, più che teologico. La possibilità di discutere di un argomento così vasto e problematico, a livello filosofico, ci ha permesso di creare una riflessione comune non solo su cosa sia l’identità e da dove nasca, in termini logico aristotelici, il termine, ma anche come vengono veicolate e comunicate le identità che costellano la nostra contemporaneità. Si è trattato, insomma, di comprendere che oggi non possiamo più parlare di una monoidentità ma di una complessità di identità che coesistono e sussistono in noi. Complessità che, se e quando argomentata, diventa fonte di dialogo e di riconoscimento reciproco, mentre quando viene semplificata e categorizzata, ecco che tende a creare meccanismi identitari di chiusura e contrapposizione delle differenti identità. Un elemento di semplificazione comunicativa delle identità, ci sembra essere lo slogan. Oggi, come ieri, gli slogan sono contenitori di identità, specialmente di identità politiche e politicizzate, le quali abitano la nostra sfera pubblica. Esempi di queste identità politiche comunicate attraverso gli slogan sono: Proletari di tutto il mondo unitevi, oppure Libro e moschetto, fascista perfetto, o ancora L’immaginazione al potere. Brevi frasi, altamente incisive, che esprimono una identità che chiede appartenenza, senza offrire una argomentazione o una spiegazione del paradigma antropologico di riferimento. Troppe parole rischierebbero di confondere le identità, di farle dialogare, di trovare punti di contatto e di dialogo. Mentre l’identità offerta dall’ideologia, spesso, chiede una netta appartenenza, una faziosità, una adesione di parte, una divisione, in fin dei conti, una identificazione. L’ideologia, in fin dei conti, funziona attraverso la creazione di identità nette e faziose, che hanno bisogno di conservare se stesse e di auto conservarsi, per non annacquarsi. E questo vale per ogni identità che si presenti come identificazione ideologica attraverso processi comunicativi, volti alla semplificazione dell’essere umano. L’identità, insomma, funziona nella misura in cui è monolitica, granitica, nella misura in cui si rivela come articolazione totale dell’essere umano, oltre la quale non c’è nient’altro. Scrive François Laplantine:
Il pensiero identitario è un pensiero dogmatico nel senso kantiano. È un pensiero dell’affermazione che non permette la critica né dei suoi propri enunciati, né degli enunciati altrui. Utilizzato dagli uni come mezzo di rivendicazione e dagli altri come strumento di indagine, esso consiste nella riproduzione di ciò che distingue e particolarizza. Non permette nemmeno di prendere in considerazione l’esistenza del singolare che ci apre all’universale. In effetti, è sempre attraverso l’esplorazione di un’esperienza singolare che sorge l’universale, mentre il particolare consiste nell’irrigidimento del singolare, così come il generale tende, mediante un processo di astrazione, all’impoverimento dell’universale (F. Laplantine, Identità e meticciato).
Durante il nostro incontro insieme ai giovani della comunità parrocchiale, abbiamo analizzato alcuni slogan per comprendere quale sia il paradigma antropologico di riferimento, per aprire una porta critica all’interno dell’identità e coglierne la costruzione. Il primo slogan che abbiamo preso in analisi è stato L’utero è mio e lo gestisco io: chiaro riferimento ad un’autodeterminazione della donna, legata alla sfera della genialità e della riproduzione sessuale, in genere utilizzato per le campagne pro aborto. Un secondo slogan è stato Non abbiamo un pianeta b: diffuso dai movimenti ambientalisti ed animalisti, secondo alcuni componenti del gruppo, utilizzato per moda o per sottolineare l’urgenza di un cambio di paradigma economico in grado di produrre meno inquinamento ambientale, fino a giungere ad atti estremi di luddismo antitecnologico e antitecnico. Un altro slogan è stato Never give up: tatuato spesso sulla pelle dei carcerati è una frase che sottolinea il machismo di chi non si arrende, di chi non si dimostra mai fragile, di chi non ha paura di nulla e che non può dimostrare mai una sua debolezza, pena l’essere fuori dal gruppo o dal clan di riferimento. Ancora, Maschio e femmina li creò come rappresentazione dell’ideologia di famiglia tradizionale con una strumentalizzazione della Sacra Scrittura e una identificazione per categorie sessuali complementari dell’essere umano. Infine, Prima gli italiani per cui abbiamo una categorizzazione identitaria nazionale subdolamente veicolata contro qualcuno che è, e rimane, secondo.
Identità che racchiudono e tentato di racchiudere la complessità che siamo in un’articolazione definita e definitiva, totale e totalizzante. Identità dentro una ideologia da slogan, in cui il pensiero assimila tutto e la critica si riduce progressivamente. Fino ad assumere l’identità che vogliono gli altri, che gli altri mi impongono. Una maschera identitaria, dietro cui non c’è più neanche un volto.
Matteo Losapio [presbitero, redattore CuF, Bisceglie, Bari]