Il Vangelo domenicale: In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (Mt 21, 33-43 – XXVII TO A).
Chi conosce la vita dei campi sa bene quale legame profondo si instaura tra il coltivatore e la terra. Passione, amore, cura e preoccupazioni sono pane quotidiano per chi semina, coltiva e aspetta di ottenere un buon raccolto. Affidare, poi, tutto questo ad altri è fonte di ulteriori preoccupazioni. È una dinamica che riguarda non solo la vita dei campi ma ogni realtà umana, relazionale o professionale che sia: porre in mano altrui quanto ho di più caro. In ogni lavoro o attività molto spesso affidiamo ad altri ciò che è nostra “creatura”: non solo i figli, anche amici e parenti, lavoro e progetti, traguardi e sogni. Nel farlo, spesso, abbiamo paura e siamo confusi. Non siamo – non lo siamo mai stati e non lo saremo mai – mai completamente autonomi: siamo sempre, in parte o totalmente, nella mani di un altro/a. A dirla in termini classici (aristotelici), l’autosufficienza si raggiunge… vivendo con gli altri!
Il buon Dio ha fatto così con noi e continua a farlo. Ha posto nelle nostre mani il creato – ce lo ha ricordato il papa pochi giorni fa con la nuova esortazione Laudate Deum – con tutti le sue ricchezze, ci ha donato la vita, la famiglia, la comunità, civile ed ecclesiale, in cui viviamo e ci ha resi membri di una vita più grande che è quella del suo Figlio, affidandoci il suo Regno. Vogliamo altro?
Eppure siamo così abituati a questi doni, che li riteniamo scontati, anzi, in alcuni momenti, iniziamo persino a pensare che ci spettino, per chissà quale merito; pensiamo anche che Il buon Dio addirittura non possa fare a meno di noi. Si chiama presunzione e ha mille forme, dalle più sottili alle più sofisticate, specie tra quelli che lavorano con l’intelletto.
La presunzione spesso nasce perché abbiamo perso il senso del dono e la gratitudine per esso. Niente mi è dovuto. Assolutamente niente. Tutto è grazia, direbbe Bernanos in uno dei suoi romanzi. Tutto è grazia. Tutto è dono del buon Dio. Non meritiamo mai niente. Dio non ha debiti con noi, siamo noi ad averne con lui. Quando ci affida qualcosa dobbiamo sempre dire: grazie! E darci da fare per portare buoni frutti.
Ci è tutto gratuitamente affidato: la vita, l’intelligenza, le emozioni, la famiglia, il lavoro, le relazioni, il potere, i beni materiali, la natura. Tutto. Tutto ci è affidato perché possiamo portare frutto secondo il suo volere, perché Lui è l’unico e sommo padrone: il Signore.
Come tutto ci è affidato, tutto ci può essere tolto. Non c’è nessuna garanzia per un possesso perpetuo. “A voi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, dice Gesù. Alla luce di ciò quanto sono ridicoli e sciocchi (ma anche pericolosi) tutti quei discorsi su “l’Italia Paese cattolico”, “non possiamo non dirci cristiani”, “dobbiamo manifestare la nostra fede pubblicamente (tra crocifissi appesi e processioni varie)”, “mantenere le tradizioni cristiane”. Ma a che serve tutto questo se non portiamo frutti di giustizia e di pace, di accoglienza e solidarietà dove viviamo? A che serve se maltrattiamo gli altri, rubiamo, corrompiamo, invidiamo, ci rintaniamo in casa, deturpiamo la natura? Non serve a niente, anzi sono la nostra condanna.
Scrive Isaia (5, 7): “Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Giustizia e rettitudine sono frutti della nostra vigna? Se non lo sono, ci sarà “tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, dice Gesù.
Chiediamo al Signore, come singoli e come comunità, di conservarci in gratitudine e umiltà. Pensiamo a quanto riteniamo di più prezioso nella nostra vita (famiglia, relazioni, lavoro, ministero ecclesiale, beni materiali, potere sugli altri) e ricordiamoci che il Signore non ci penserà due volte ad affidarlo ad altri se noi non portiamo frutti in Lui e per Lui. Che ci vogliamo fare… È il Signore. Opera e ama in questo modo. È il padrone, non ammette concorrenti ed è molto geloso della sua vigna.
[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]