Si è vulnerabili quando non si ha lavoro, ma si può esserlo e tanto, anche quando lo si ha. La vulnerabilità sul lavoro difficilmente è una scelta, è un dato oggettivo e sono tante le sue sfaccettature. Perché il mondo del lavoro nella società tecnologica cambia rapidamente, le competenze divengono facilmente obsolete e vanno aggiornate o cambiate, ma per chi è avanti in età è spesso difficile ricostituirle. Perché il lavoro di una persona sola non basta per mantenere l’intera famiglia. Perché si trovano soprattutto lavori di breve durata. Perché se anche la voglia di lavorare è tanta, si è costretti a farlo a basso salario. Perché magari si lavora in ambienti dove la propria salute è a rischio. E potrei continuare.
L’intervento dello Stato è cruciale per curare le vulnerabilità delle imprese e quelle dei lavoratori. Usando tutti gli strumenti a disposizione, da norme a contrattazioni nazionali e decentrate, a forme di incentivi. Una non può e non deve escludere l’altra. Una può, invece, rafforzare l’altra.
Certo, due aspetti sono fondamentali e contribuiscono ad una maggiore o minore vulnerabilità dei lavoratori e delle loro famiglie: la continuità nel tempo di un lavoro regolare, che garantisce, quindi, anche i benefici previdenziali e assistenziali; il reddito da lavoro che dipende dalla retribuzione oraria e dal numero di ore che si lavora.
Il lavoro continuativo, a tempo indeterminato, e a tempo pieno di lavoratori dipendenti o autonomi con dipendenti si è ridimensionato nel tempo. È certamente ancora la forma più diffusa, ma sfiora solo il 60% degli occupati, come documenta l’Istat. Sono i lavoratori indipendenti ad essersi ridotti di più, arrivando a poco più di un quinto degli occupati, con una diminuzione che ha colpito soprattutto le microimprese e i collaboratori, quei segmenti più vulnerabili nei momenti di shock.
E sono le forme a tempo determinato ad essere cresciute tra i dipendenti. Siamo arrivati a 3 milioni. Se a questi si aggiungono i lavoratori a part time involontario, quindi, non per scelta, raggiungiamo il 21,1% degli occupati pari a quasi 5 milioni. Un numero elevato e preoccupante. La durata dei contratti a tempo determinato in metà dei casi arriva al massimo a sei mesi.
I giovani, le donne, gli stranieri, i residenti al Sud, le persone con titolo di studio più basso, delle professioni meno qualificate, nella ristorazione, nei servizi alle famiglie e nei servizi di supporto alle imprese sono i soggetti più vulnerabili.
Abbiamo bisogno che il Paese si doti di una strategia che limiti al massimo le vulnerabilità e sappia intervenire, perché queste non si trasformino in cristallizzazione del disagio. Cioè, che sappia puntare sullo sviluppo delle nostre imprese agevolandone la crescita in dimensione, in capacità di innovazione, nel rispetto del lavoro dignitoso. E sappia parallelamente rigenerare il capitale umano dei lavoratori vulnerabili, che hanno dovuto subire anche l’aggravante di un tasso di inflazione, che ha toccato vette del 18.8% per due mesi consecutivi a ottobre e a novembre.
Il problema grave a cui dobbiamo dare soluzione, senza dimenticare gli altri, oggi è la bassa retribuzione. Sono più di 4 milioni i dipendenti del privato che non arrivano a guadagnare 12 mila euro lordi l’anno. Nella metà dei casi circa per un basso salario orario secondo la stima Istat, ma per il resto per un numero di ore lavorate nell’anno molto basso.
Ciò ci dice che non solo è fondamentale agire per il salario minimo, ma che contemporaneamente è indispensabile combattere, con le misure dovute, la frammentazione del lavoro e la sua precarietà.
Siamo una Repubblica basata sul lavoro e secondo la Costituzione ognuno deve essere pagato dignitosamente. Rendere il lavoro meno vulnerabile e i vulnerabili più sostenuti, dovrebbe essere la priorità del governo, che invece aumenta la precarietà, avversa il salario minimo, e ridimensiona gli interventi contro la povertà.
Incrementare il livello salariale dei lavoratori, non vuol dire gettare i soldi dalla finestra, ma al contrario, aumentare la domanda interna, e puntare su uno sviluppo inclusivo.
https://www.repubblica.it/commenti/2023/07/14/news/lavoro_precarieta_tasso_occupazione_italia-407777982/?ref=RHRT-BG-I279994148-P3-S3-T1
Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.