Scampia e le “colpe” dell’architettura della costrizione, di Elena Granata

La tragedia di Scampia è così fuori misura, per numero di persone coinvolte e sofferenza che sta generando negli abitanti, che ogni riflessione sulla genesi di tanto malessere potrebbe apparire inopportuna. Eppure, è doveroso mettere a fuoco, proprio ora che i riflettori sono puntati lì, che cosa abbia potuto generare una situazione così pericolosamente “fuori norma”, sotto il profilo della sicurezza e della dignità delle persone.

È vero. Le Vele nascono da una stagione politica di buone intenzioni ma nessuna di quelle buone intenzioni può più giustificare il disastro che hanno generato. Non possiamo più continuare a dire che i problemi siano nati dopo, dal tradimento delle intenzioni progettuali, dalla cattiva gestione degli stabili, dalla pessima politica (che certo non mancano mai). Non possiamo più continuare a dire, in sostanza, che le premesse erano giuste e qualcosa poi è andato storto.

Il peccato è originale, e sta tutto in quella convinzione paternalista che pensava di intervenire sul bisogno di casa e sulle povertà, concentrando i propri sforzi intorno alla quantità e non alla qualità delle risposte. È quell’utopia urbanistica che ha realizzato, per conto dello Stato, tra gli altri, lo Zen a Palermo, il Satellite a Pioltello, il Pilastro a Bologna, per citare solo alcuni esempi. Utopia che viene ancora celebrata come un tempo glorioso in cui la meglio gioventù di architetti intellettuali era affascinata da quel monumento intoccabile all’architettura socialista che è l’Unités d’habitation di Le Corbusier.

Un’idea folle e radicalmente sbagliata aveva convinto molti seguaci del grande architetto che si potessero riprodurre artificialmente brani di città dal nulla, generando monoculture abitative, pensate come macchine per l’abitare, autosufficienti e isolate dal mondo, grandi alveari sociali in cui assegnare alle famiglie spazi angusti, tutti uguali, grandi il minimo per la sopravvivenza. Tanto poi per la vita collettiva ci sarebbero stati gli spazi comuni, i ballatoi, gli androni. A Scampia in particolare nasce con l’illusione che quei ballatoi richiamassero l’intrico e la vita densa dei vicoli di Napoli.

Un’architettura della “costrizione” che pensava di poter predeterminare i comportamenti delle persone, ispirando buone relazioni di vicinato attraverso una densità abitativa sciagurata. Come se la prossimità e la densità fossero di per sé foriere di legami sociale.
Tutti magnificano ancora oggi l’esperimento di Marsiglia di Le Corbusier pensato per soli 1.500 abitanti, le Vele di Scampia vennero costruite pensando ad una popolazione di 100.000 abitanti, il doppio di quelli previsti dal piano urbanistico di allora. Davvero una scala insostenibile. No, non si è trattato (solo) di un tradimento delle speranze. Le Vele si sono trasformate nel tempo in ghetto, in mostro urbano, in fortino della camorra, perché erano sbagliate fin dalle intenzioni. Il lavoro generoso del Terzo settore, dei preti e delle comunità locali, sono state un balsamo sulle ferite ma dentro un corpo fisico e di relazioni tremendamente vincolante. È vero che dovevano avere a corredo delle case una serie di servizi, una grande piazza alberata, uno spazio giochi dei bambini, negozi di alimentari, una biblioteca, ma questi servizi sono stati prontamente tagliati e forse non avrebbero comunque fatto la differenza.

Non possiamo più dire che la trasformazione delle Vele in un inferno abitativo sia dovuta a cause che non hanno nulla a che vedere con la concezione architettonica. Nessuna amministrazione – italiana – avrebbe potuto gestire bene un patrimonio abitativo tanto ampio e incontrollabile; un costo insostenibile che infatti negli anni passati già portò alla demolizione di tre dei sette edifici originari (nel 1997, nel 2000 e nel 2003; la terza Vela nel 2006 è stata trasformata in una sede universitaria). E torno al punto. Come mai dopo pochi decenni l’unica soluzione per gestire le Vele è stata la loro demolizione? Quale sarebbe stata la scala più adatta, quali i materiali, quali le tecniche costruttive che avrebbero consentito una manutenzione più facile e meno onerosa degli stabili? Persino la demolizione, infatti, quando le strutture vengono realizzate in cemento armato diventa insostenibile, eppure continuiamo a costruire così.

Lasciamoci alle spalle la retorica e le idee di quelle utopie e ripartiamo dalle esigenze delle persone, da quel patrimonio edilizio diffuso e abbandonato, spesso informale che richiederebbe di essere recuperato, pensiamo a più piccole ma tante, tantissime unità abitative dove il tema della cura e delle formule della manutenzione vengano ripensate. Esempi da cui copiare in tutto il mondo non mancano.

[Docente di Urbanistica e Analisi del Territorio, Polimi]

 

 

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