Nei giorni scorsi, visitando le catacombe di Priscilla, dove si trova la più antica rappresentazione della natività, che risale al III secolo, mi ha colpito vedere questa pittura, collocata nell’arenario centrale, in questa grande area sepolcrale: lì si custodivano le spoglie dei defunti e questo, pur nella diversità dei luoghi e delle storie, mi ha condotto con la mente in uno dei più orrendi luoghi di sterminio del nostro tempo, la siriana Saydnaya.
Forse è accaduto perché ne ha parlato tutto il mondo in questi giorni, agghiacciato da ciò che ha visto o appreso. Tanto che chiunque converrebbe con chi sostiene che il vecchio nome ellenistico della provincia siriana dove sorge Saydnaya, Abilene, derivi da Abele: lì Caino ha imperversato. Ma l’enormità del crimine commesso per decenni non si coglie bene, non sappiamo neanche definirlo: forse ci potremmo riuscire con l’aiuto dell’icona di Saydnaya.
La bellissima icona di Nostra Signora di Saydnaya è nel limitrofo monastero, anch’essa dei primi secoli; per alcuni è stata trasportata da Gerusalemme in Siria dall’imperatrice Eudossia nel 640, per altri lì portata ai tempi di Giustiniano, per ricordare la sua miracolosa salvezza nel deserto, grazie a una gazzella che sarebbe comparsa all’improvviso per condurlo a una fonte d’acqua per poi sparire.
Lo sguardo di Nostra Signora di Saydnaya l’ho sempre percepito come assorto nella lontananza, una lontananza che in quel momento per me è divenuta una grande vicinanza. È stato come se un gruppo di donne, madri, siriane, cristiane e musulmane, la trasportasse finalmente davanti al penitenziario di massima sicurezza siriano costruito a un chilometro dal monastero dove i pellegrini le hanno reso omaggio per secoli, a fiumi, cristiani e musulmani.
Erano tutte madri, che come tantissime altre hanno perso i loro figli in quello che ormai è un simbolo mondiale dell’orrore, il grave oltraggio che gli Assad hanno fatto a tutto il cristianesimo: fare di Saydnaya un simbolo di morte. Ma la cosa più grave è che Saydnaya è stata scelta come simbolo di un sistema penitenziario capillare e diffuso, dove ogni detenuto era alla mercé dei suoi aguzzini per tutto il tempo che loro avrebbero voluto: un anno di torture quotidiane, o dieci anni, o tutta la vita… Questo «educava» al terrore chi stava fuori o soddisfaceva un bisogno satanico dell’uomo?
Testimoni raccontano che da quel «penitenziario» negli ultimi anni sono partite colonne di camion con celle frigorifere che hanno riempito nel deserto circostante un numero ancora non definito di fosse comuni scavate prima soltanto a un metro di profondità, poi, per i vari problemi che si possono immaginare, a tre metri. Una di esse conterebbe 150mila corpi, gettati lì dentro dopo aver atteso il tempo necessario perché si scollassero l’uno dall’altro, erano troppi quelli ammassati in ciascuna cella frigorifera. Molte altre sono state individuate tra Saydnaya e Damasco.
Così la lontananza che sembra intravedersi nello sguardo dell’icona, portata da quelle «madri vedove dei loro figli», si spiega come vera vicinanza, capace di abbracciare non solo nel deserto circostante le numerose fosse comuni che tutti sanno esserci anche nel Sud della Siria, nei pressi di Daraa, o più a Nord-Ovest, nella Valle dell’Oronte, verso il Libano: i luoghi più noti delle efferate carneficine del 2011-2012 e ancora inesplorati.
Che le cose stiano così è sicuro; in particolare per quelle che si trovano, ancora non identificate, nella Valle dell’Oronte abbiamo la preziosa testimonianza di padre Paolo Dall’Oglio, che le ha viste appena scavate quando si recò nei pressi di Homs per chiedere e ottenere il rilascio di alcuni cristiani presi in ostaggio da un gruppo armato.
Parlò dell’al di là con uno dei jihadisti con cui entrò in contatto, che poi gli disse «tu mi sei entrato nel cuore». La prima volta che rientrò da clandestino in Siria, diversi mesi prima del sequestro, lo fece perché voleva fortemente andare a pregare su quelle fosse comuni. Quelle madri vedove dei loro figli portavano quell’icona al mattatoio di Saydnaya dando finalmente forma alla sua preghiera.
La tradizione ci dice che un unguento miracoloso trasuderebbe dall’icona e, mentre quelle donne la tenevano davanti al «penitenziario» di Saydnaya, l’unguento diveniva il balsamo della premura materna di Maria, venerata nel Corano, per tante madri o figlie di così tante vittime da rendere difficile che vengano trovate tutte, e onorate con la dovuta sepoltura.
Mentre riportavano l’icona al monastero che da sempre la custodisce mi è diventato chiaro che quella natività diventava la natività della nuova Siria; molto povera, molto problematica, certa soltanto delle sue incertezze, ma per questo determinata a fare di questo passo del Documento sulla Fratellanza Umana di Abu Dhabi firmato da papa Francesco e dall’imam dell’Università islamica del Cairo il preambolo della sua futura Costituzione:
«In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace. In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera. In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante. In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna».
Per questo il mattatoio deve restare lì; sempre presente, per sempre vuoto.
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