Già la parola da sola mette i brividi. E la domanda stessa: che cos’è la verità da sempre accompagna, appassiona e forse anche affligge l’umanità, tanto grande e sconfinato è il il sio senso e il suo mistero. Il fascino che l‘avvolge rimanda agli insegnamenti di saggezza dei filosofi dell’antichità e dei grandi maestri di spiritualità. Il loro invito a ricercare la verità per ritrovare l’equilibrio di vita e buone ragioni per affrontarla percorre latitudini diverse e differenti visioni del mondo. La promessa del Profeta di Galilea “la verità vi farà liberi” (Gv 8,36) suggella lo sguardo su questo tesoro prezioso di sapienza di vita. Eppure, sulla parola verità si addensano anche ombre pericolose, rischi abissali che mettono a nudo stati precari delle nostre anime e allertano per non cadere in trappole distruttive e alienanti.
Perché tutta questa ambivalenza che fa oscillare la verità tra fascino e rischio? Perché con una parola così densa e piena di senso, gli scenari non sono soltanto positivi e invitanti, ma racchiudono anche ansia e perplessità?
Molto dipende dall’uso, forse anche dall’abuso che si può fare di essa. Su questa corda che intreccia il modo di sentire e l’arte dell’interpretare la lunghezza d’onda del termine verità si gioca, infatti, un complesso destino. In realtà abbiamo a che fare con un vistoso passaggio di significato, uno spostamento di accenti non irrilevante, legato a due modelli ermeneutici del concetto di verità. Un primo modello potremmo definirlo di carattere qualitativo: esso considera la verità come un orizzonte di senso, l’humus entro il quale sentirsi radicati, trovare una bussola. L’altro modello declina in termini quantitativi il concetto di verità e lo assume come portato di asserzioni che impattano sulla realtà, la catturano per classificarla, per definirla, per incastrarla in un quadro di insieme che diventa apparato dottrinale ad alto tasso di normatività. Nel confronto tra il primo e il secondo modello si capisce che la patina qualitativa del concetto di verità si ferma all’uso del singolare di questo termine, facendone intuire lo spazio ispirativo e la tenuta creativa. L’elaborazione dottrinale, invece, fa uso di un plurale aggregativo di formule e sentenze, di passaggi logici e di vincoli obbliganti. Nell’arco di confronto tra i due modelli svanisce il livello sapienziale, orientativo del primo, a vantaggio di un impianto intellettuale, razionale del secondo. La riserva di senso che mette luce su un orizzonte a cui guardare, nutrendo la nostalgia di forme aperte, cede il passo alla codificazione assertoria di verità che domandano obbedienza e stringono la morsa nel dovere di adeguarvisi.
Il passaggio dal singolare al plurale del termine verità non è dunque indolore e non lascia indifferenti. E anche la ricerca della verità risente di questo andamento del singolare o del plurale in modo conseguentemente significativo. Si cerca un orizzonte a cui ispirarsi o un codice
a cui attenersi? E chi invita alla ricerca della verità consente alle persone un anelito di autenticità e una possibilità di costruire creativamente il proprio cammino, o chiede loro un lavorio intellettuale di ricognizione astratta e teorica di cose da apprendere e da considerare come binari costrittivi di un cammino definito dal di fuori?
Eppure, la fame di verità non è spenta, anche in tempi così difficile e pieni di contraddizioni come i nostri. Non mancano anche oggi persone singole e aggregazioni di gruppi che si pongono il problema di come dare forma autentica alla vita. Probabilmente proprio queste persone e questi gruppi maggiormente risentono di una sorta di allergia verso i sistemi imposti di quelle verità che costringono a una visione chiusa della vita. In questo gioca un ruolo determinante il fatto di sentire che molto spesso queste verità sono costrutti intellettuali con scarsa valenza di ancoraggio nelle storie di vita e si impongono in forza di rigore logico, ma non generano desiderio di cammino e passione per livelli trainanti di autenticità. Anzi, la percezione del rischio di costrutti manipolatori che stanno alla base di verità solo apparenti o addirittura di falsificazioni di esse rende ancor più sensibili e attenti. Il propagarsi di fake news elaborate con sistemica volontà dominatrice mostra a sua volta come sia precario e scabroso parlare di ricerca della verità. Anche la narrazione della storia collettiva, espressione di esperienza e di saggezza di un intero popolo, può essere tirata nella rete di questa attitudine di selezione che cancella il passato o gli imprime una diversa narrazione.
La fatica della ricerca della verità è senza dubbio resa più ardua anche da questa condizione negativa e manipolatoria. La necessità di una consapevolezza attenta e di una coscienza critica per non cadere nella trappola delle verità ad uso interessato e funzionale a sistemi dominanti è un ulteriore elemento che deve accompagnare la ricerca della verità. Qui emerge una dimensione politica che conferisce alla ricerca della verità un valore costruttivo di storia condivisa e solidale.
Le valenze di senso, riferite alla verità al singolare, come orizzonte aperto, a cui ispirare la propria vita e il disegno di società, mettono in risalto il significato non astratto e non intellettuale, ma ispirativo e propositivo della verità. Essa non va solo conosciuta e pronunciata, ma va realizzata e costruita, in fedeltà a quei germi di impegno per una vita buona e una società giusta. Per questo è di aiuto l’espressione giovannea “fare la verità” (Gv 3, 21). In realtà, siamo più avvezzi a sentire che occorre dire la verità, quasi che il tutto si consumasse in un atto conoscitivo-locutorio. Mentre dobbiamo imparare a porre maggiore attenzione al fatto che la verità, come orizzonte ispirativo di senso ha in sé energia di trasformazione della prassi di vita e del tessuto sociale. In questo invito ad essere operatori di verità, nel vocabolario neotestamentario colpisce anche il fatto che il termine “fare” venga reso con il verbo greco “poiein” che fa rimbalzare alla mente la figura del poeta, che è il vero costruttore di realtà, perché la ricava dall’immaginazione e la consegna alla raffigurazione. Nel richiamo alla figura del poeta, nella metafora del poetare, c’è ancora una volta tutta la carica creativa e la risorsa di libertà con cui in definitiva la verità deve essere correlata. Chi si adattasse all’impiego dell’apparato veritativo di sistemi chiusi e stretti nella codificazione di sentenze e di dottrine, al massimo potrebbe piegarsi ad agire sotto dettatura, mai potrebbe aspirare alle vette della libertà creativa, tipica del poeta e della poesia.
La ricerca della verità nella sua tessitura di termine al singolare ci consente di dare forma a questo anelito di libertà che non la contraddice, ma la afferma, la rinforza, la alimenta.
E proprio a questo ci richiama la parola di Gesù di Nazareth, quando dice di sé: “io sono la verità” (Gv 14,6). Egli non ha sulla bocca un dettato normativo che riproduce sentenze dottrinali, ma è sorgente di libertà che rivela la verità delle nostre vite.
[professore emerito di teologia morale all’università di Münster, Germania]
Fonte: Mosaico di pace, nov. 2024