Quella violenza sommersa sulle donne che non va normalizzata, di Viviana Daloiso, Antonella Mariani e Chiara Vitali

No, non è normale. Non è normale che un collega assesti una pacca sul sedere alla vicina di scrivania, o davanti ad altri in una riunione propini battute sul suo abbigliamento. No, non è normale che un ragazzo installi il localizzatore sul cellulare della fidanzata, o che scrolli le sue chat private su WhatsApp. Non è normale che una donna di ritorno dal lavoro o da una cena venga inseguita fin dentro l’androne di casa, o che un ex l’aspetti nascosto con la scusa di un “ultimo chiarimento”. Non è normale, soprattutto, che tutto ciò sia considerato normale: «Che sarà mai?», «Mica sarà violenza questa», «Esagerata, è solo un complimento», «Sei tu che hai indossato una gonna troppo corta», «Però tu l’hai illuso». È come se, perché si possa parlare di violenza, una donna dovesse essere necessariamente uccisa, violentata o picchiata. Se ne è discusso tanto in questi giorni: il patriarcato non esiste più sulla carta, perché alcune leggi che subordinavano le donne alla potestà dell’uomo sono state superate (lo ius corrigendi abolito nel 1956, il delitto d’onore nel 1981, lo stupro diventato reato contro la persona nel 1996, quando peraltro fu opportunamente codificata una visione allargata e “inclusiva” di violenza sessuale). Ma è innegabile che – lo si chiami come si voglia, patriarcato o maschilismo, non è una questione di definizioni – resista nelle pieghe della nostra cultura condivisa, nei risvolti della nostra società. Italiani o stranieri, è una distinzione che porta fuori strada.
Le donne più avanti negli anni ricordano i palpeggiatori seriali sui mezzi pubblici (oggi è violenza sessuale), gli esibizionisti con l’impermeabile aperto sulle nudità fuori da scuola (idem), i pedinatori professionisti nei parchi. Le più giovani sperimentano gli stessi fantasmi e altri ancora: i controlli ossessivi sui cellulari, le manipolazioni psicologiche, il sesso estorto con la complicità dell’alcol e della droga, le trappole sentimentali tese con i mezzi tradizionali e con quelli contemporanei dei social.
In occasione del 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, abbiamo deciso di chiedere a un campione di amiche, conoscenti, colleghe di raccontare la “propria” violenza. Per noi è stato un po’ choccante e un po’ no accorgerci che nessuna di loro è stata esente, nel corso della vita, da un episodio di molestia: piccolo o grande che fosse, esso l’ha segnata in vario modo, facendola sentire calpestata, annientata, violata. I racconti sono pubblicato su “Avvenire” di domenica: molte lettrici si rispecchieranno in essi, alcuni lettori (maschi) inorridiranno pensando che anche alle loro mogli, sorelle, madri e figlie è statisticamente molto probabile che sia accaduto qualcosa di simile. Altri ancora – speriamo pochi – penseranno che in fondo c’è di peggio dell’essere palpeggiata o inseguita fino alla porta di casa.
Ed eccolo, l’errore più grave: normalizzare comportamenti che normali non sono. C’è violenza anche se non c’è reato, e nella maggior parte dei casi, comunque, di reato si tratta. C’è violenza in tutto ciò che lede la dimensione intima di una donna, che una donna subisce contro la sua volontà e che ne limita o ne condiziona la libertà. Di più: nello spazio scavato da questa violenza quotidiana – subdola, sottovalutata, spesso tenuta segreta per paura, umiliazione, vergogna – trovano radici l’odio e il male che come geyser troppo spesso esplodono nell’orrore assoluto degli abusi, delle percosse, dei femminicidi. È la “cultura dello stupro” che resiste e inquina la nostra società, minando dal profondo la partita della pari dignità tra uomo e donna. Dal 2017 in avanti il movimento #MeToo ha avuto il merito di aver reso chiaro, in una sorta di autocoscienza collettiva globale e non senza alcuni eccessi, che le prevaricazioni, i ricatti, le prepotenze maschili sono pervasivi, frutto anche di rapporti diseguali di potere, e colpiscono una percentuale impressionante di donne. E che però si può reagire. Parlare. Guarire.
E gli uomini? Il loro ruolo è cruciale. Loro possono fermare i cicli di violenza nei contesti che abitano: in famiglia, al lavoro, per strada. Possono dire “basta” alle dinamiche più retrive, interrogarsi sui propri comportamenti e sulle proprie emozioni, educarsi, formarsi, ascoltare. Credere a ciò che le donne raccontano, alle loro sensazioni e vissuti, anche quando, poiché siamo diversi, può sembrare difficile capire del tutto. Fino a liberarsi – chi non l’ha già fatto – dei residui stantii di una vecchia cultura, sì, patriarcale, maschilista. Quella che mette in discussione Gino Cecchettin nelle pagine forse più intime e commoventi del suo libro “Cara Giulia”, a proposito della sua stessa infanzia e adolescenza accanto a un padre – per molti versi figlio del suo tempo –, per il quale le donne avevano un solo posto in cui esprimersi, la casa, e un solo modo in cui stare al mondo, al servizio dei maschi. Solo così, liberati, gli uomini possono fare la differenza ed essere realmente alleati delle donne. E chissà che nel processo non possano scoprire anche nuove parti di sé, ed essere a loro volta più liberi.
Per Giulia Cecchettin, e per tutte le vittime di quei femminicidi che prima si sono nutriti di piccoli grandi abusi quotidiani, abbiamo deciso di dedicare il “nostro” 25 novembre alle violenze nascoste. Anzi, sommerse. Vanno riconosciute nelle nostre vite e in quelle di coloro che ci passano accanto. Solo riconoscendole, chiamandole con il loro nome, e convincendosi che no, non è normale che avvengano, si possono eliminare prima che sfocino nell’irreparabile.

avvenire.it/opinioni/pagine/la-violenza-sommersa-sulle-donne-non-normalizzare

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