Ieri notte, mentre nella nostra piccola Italia eravamo presi dai risultati in Sardegna, arrivava notizia sulle agenzie che dopo un giorno di agonia per le ustioni riportate era morto Aaron Bushnell. L’aviere americano che si era dato fuoco per protesta davanti all’Ambasciata d’Israele a Washington contro quel che ormai a Gaza è sempre più una ritorsione contro un intero popolo da parte dell’esercito di Israele, per il pur efferato attacco del 7 ottobre di Hamas. Aaron ha registrato un video: “Non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma, rispetto a quello che le persone hanno vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso sarà normale”. Poi si è cosparso di liquido infiammabile, ha posato il telefonino e si è dato fuoco. Mentre si stava immolando e le fiamme lo circondavano urlava “Free Palestine”.
Follia sentire con tanto disperato dolore personale il dolore degli altri? Troveremo, troveranno certamente uno psichiatra che lo dirà, che ce lo spiegherà sulla grande stampa e tv.
Io preferisco pensare a Jan Palach, o a un altro aviere dell’età di Aaron, il maggiore Claude Eatherly, l’unico a farsi avanti per confessare pubblicamente il proprio rimorso per ciò che aveva fatto ad Hiroshima. Eatherly, un texano di 26 anni, pilotava l’aereo che aveva l’incarico di valutare la visibilità dell’obiettivo. Fu lui a dare il via libera quel giorno al lancio della bomba. Il suo ruolo nel bombardamento lo avrebbe perseguitato per il resto della sua vita, portandolo a un’alienazione autodistruttiva.
Persino dal cielo, come nel caso di Eatherly, o da un’altra parte nel mondo, come con Aaron, il sangue degli altri che non vedi ma solo immagini può ucciderti dentro, toccandoti nel cuore.
E preferisco pensare al dottor Rieux a ai suoi amici, Rambert e Tarrou, che ne la peste di Camus, a Orano, in un mondo appestato dal male, non fuggono ma restano a morirvi per gli altri, per portare soccorso, perché – come dice Rambert, che voleva andarsene – dopo “che ho veduto quello che ho veduto, so che io sono di qui, che io lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti”. Ecco, questa storia di Gaza è la nostra storia. Non restarvi con la mente e con il cuore prendendo la parola è disertare dalla nostra coscienza morale. Ce lo ha ricordato un aviere, dandosi fuoco, nel senso dell’onore impotente del suo gesto.
Nella vita talvolta siamo messi in condizione – lo hanno fatto quelli che Israele celebra piantando un albero nel Giardino dei Giusti, perché in mezzo alla morte hanno piantato la vita – che l’unica cosa che possiamo fare è limitare il disonore di questo mondo, del nostro stare al mondo. E farlo per tutti. Aaron lo ha fatto, come poteva. Non so perché, ma mi ricorda un falegname in Galilea che sulla Croce ci salì, ci si fece mettere da solo, per dire agli altri, a destra e a sinistra, di non metterci nessuno, neanche i ladroni. Aveva anche qualche anno in meno del falegname, venticinque anni, Aaron. Non so se lo abbia conosciuto il falegname. Ma è stato un buon discepolo.
filosofo, politico e poeta italiano
tratto da Avvenire