Meritoriamente Einaudi ha ripubblicato il saggio della filosofa Hannah Arendt Noi Rifugiati (Einaudi 2022 pp. 112, € 12,00), apparso nella rivista The Menorah Journal nel gennaio del 1943, due anni dopo il suo arrivo a New York in piena seconda guerra mondiale. La Arendt si pone il problema della massa di rifugiati – esploso e sviluppatosi negli anni bui della prima metà del Novecento – in un mondo definito da Stati nazionali. Con notevole preveggenza, vede nei rifugiati quegli esseri umani completamente privi di copertura politica e in cerca di asilo, una figura che appare decisamente fuori luogo nell’ordine territoriale degli Stati nazionali.
La Arendt – com’è noto – è una rifugiata d’eccezione, fuggita nel 1933 dalla Germania nazista a causa della sua origine ebraica. Ma – osserva Donatella Di Cesare, curatrice del volume di cui ne scrive anche la prefazione – Noi rifugiati non è solo una testimonianza esistenziale, «ma è anche e soprattutto un manifesto politico, che segna un prima e un poi nel pensiero sulla migrazione».
I rifugiati sono coloro che non possono più far ritorno alla propria casa e non riescono più a trovarne una nuova. La novità non sta nel venire espulsi, bensì nel non essere più accolti. Afferma la Arendt: «Finalmente è emersa la storia delle prove che abbiamo attraversato. Abbiamo perso la nostra dimora vale a dire l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il nostro lavoro, cioè la fiducia di essere di qualche utilità nel mondo. Abbiamo perso la nostra lingua ossia la naturalezza delle reazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione spontanea dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi, mentre i nostri migliori amici sono stati assassinati nei campi di concentramento, e questo significa la lacerazione delle nostre vite private. Ma non appena tratti in salvo – e molti di noi hanno dovuto essere salvati più volte – abbiamo cominciato una nuova vita cercando di seguire nel modo più scrupoloso tutti i saggi consigli che i nostri Salvatori ci hanno prodigato. Ci hanno detto di dimenticare…».
Di qui la preoccupazione di Arendt per la sorte riservata a quella nuova specie umana che va emergendo nell’ordine mondiale: i «superflui». Tra le frontiere nazionali come corpi estranei, i rifugiati appaiono esseri inutili, rifiuti ingombranti. Lo Stato esercita la propria sovranità consegnandoli alle zone di transito e ai campi di internamento, l’unica patria che il mondo sa ancora offrire a quei paria dell’umanità.
La Arendt non si sofferma solamente sulle questioni meramente politiche e rileva che la teoria politica evita non prende in considerazione le vicissitudini e i drammi di chi vive escluso da ogni comunità politica. Il tema dei rifugiati non può essere considerato solo come un fenomeno di tipo giuridico e politico, ossia la perdita della cittadinanza. È indispensabile prendere atto che le persone costrette a vivere nel perimetro circoscritto da quell’insieme di disposizioni, istituzioni e spazi che è possibile raccogliere sotto l’etichetta di «campo» subiscono una specifica spoliazione di umanità, e non solo un danno giuridico.
Per questo Hannah Arendt concepisce l’apolidicità – sottolinea la Di Cesare – «in termini ontologico-esistenziali e che perciò offre una prospettiva migliore per comprendere i nostri obblighi morali nei confronti di profughi, apolidi e rifugiati». In tal senso, sono emblematiche e toccanti i suoi racconti sull’integrazione degli ebrei nei nuovi paesi di approdo per dimostrare al meglio agli altri popoli di non essere che semplici immigranti, che la loro situazione non ha nulla a che fare con i “cosiddetti problemi ebraici”. Ma non tutti riusciranno a ricostruire la propria vita. Non tutti sono stati forti ed ottimisti. Per molti ebrei «l’inferno non è più una credenza religiosa o una fantasia, bensì qualcosa di reale». Molti sceglieranno il suicidio e «finiscono per sperare a loro volta di potersi evitare un po’ di guai agendo di conseguenza».
Gli ebrei vivono nella convinzione che la vita sia il bene supremo e la morte l’orrore piú grande, pur non essendo liberi di creare le nostre vite o il mondo in cui viviamo. Respingono l’idea che siamo liberi di gettar via la vita e di abbandonare il mondo. Gli ebrei pii non possono certamente accettare questa libertà negativa, perché nel suicidio vedono l’assassinio, cioè la distruzione di quel che l’essere umano non è mai stato capace di fare, un’ingerenza nei diritti del Creatore. Eppure – aggiunge la Arendt – «siamo diventati testimoni e vittime di atrocità che sono peggiori della morte, senza però essere stati in grado di scoprire un ideale più alto della vita. Cosí, sebbene la morte abbia perso ai nostri occhi il suo potere terrificante, noi non abbiamo né la voglia né la capacità di mettere a rischio la nostra vita per una causa. Anziché lottare – o pensare al modo in cui riacquistare i mezzi per lottare – i rifugiati hanno preso l’abitudine di augurare la morte ai propri amici e ai propri parenti; se qualcuno muore, noi ci immaginiamo, quasi con il sorriso sulle labbra, tutte le pene che gli sono state risparmiate».
Pochi anni dopo, nel 1951, Louis Massignon, arabista francese e allievo del padre Charles de Foucauld, tenne un discorso dinanzi all’Organizzazione internazionale dei rifugiati, dove si poneva la questione cruciale dei rifugiati palestinesi del 1948. In realtà, si trattò di una preziosa intuizione, diremmo profetica, della figura del profugo, della «presenza permanente tra di noi» di questa figura alla quale, secondo Massignon, bisogna dare un significato che riguarda i destini finali dell’uomo e dell’universo: «Il rifugiato è un elemento del sacro che la profanazione della nozione di ospitalità ci ha fatto dimenticare, a noi i civilizzati, quando la Bibbia l’aveva affermato come un dovere per il popolo di Israele e in seguito per i Cristiani».
Anche il testo di Massignon è di una attualità impressionante. Ci saranno sempre dei profughi. Evidentemente Massignon non considera solo la vicenda particolare del palestinese espulso dalla sua terra ma, più in generale, ma del profugo in generale considerato come «l’ombra di Dio sulla nostra vita, un’ombra che ci appare spesso come il nemico, quest’ombra è nera, sporca, essa contamina attraverso tutte le epidemie, indesiderabile, persino incosciente dei nostri sforzi per salvarla. Nell’ambito del diritto internazionale, noi possiamo sperare solo che il profugo sia trattato come se fosse al di fuori delle categorie attraverso un particolare riconoscimento sovranazionale della sua presenza permanente tra di noi». Una visione con precise e forti implicazioni politiche, quando ad esempio parla della «sovranazionalità del pellegrino», aggiungendo che «in questi tempi di progresso, di moltiplicazione dei mezzi di trasporto, il problema dei rifugiati pone una questione di geografia dinamica e non statica, un problema di mescolanza dell’umanità tendente verso la sua unità finale».
Più laicamente la De Cesare osserva «la disgrazia dei rifugiati, degli stranieri, dei migranti non è la mancanza della libertà, bensí l’assenza di una comunità. Essendo privi di una comunità, sono privi anche di ogni diritto. Chi è stato respinto verso i pericolosi bordi esterni, le temibili zone del bando, chiede un posto in una comunità». Conseguentemente si chiede «se possano esistere comunità, non delimitate da frontiere nazionali, in cui sviluppare una politica dell’accoglienza».
globalist.it/culture/2023/02/12/quando-hannah-arendt-fuggita-dal-nazismo-scrisse-il-saggio-noi-rifugiati/