Nel corso delle ultime settimane lo scontro politico determinato dalla proposta di «premierato» che Governo e maggioranza stanno promuovendo con molta determinazione si è accentuato sia nel rapporto tra i partiti che in sede parlamentare, mentre sul piano dell’opinione pubblica non sembra che sia sinora emersa un’idea condivisa e chiara intorno alla vera posta in gioco in questo scontro. Posta che si riassume nell’alternativa espressa da questa domanda: la riforma del «premierato», incentrata sulla elezione diretta del Presidente del Consiglio e proposta come «riforma delle riforme», ha — come afferma la maggioranza — per scopo unico di rafforzare la stabilità e l’efficienza del Governo con un intervento che non mette in gioco l’intero impianto costituzionale ovvero, come l’opposizione teme, rappresenta il primo passo per avviare un processo di smantellamento della nostra costituzione e delle basi della nostra democrazia rappresentativa? Dopo le tante voci che abbiamo ascoltato tanto sul versante della politica che della scienza costituzionale esistono ormai, a nostro avviso, le premesse per tentare di dare a questa domanda una risposta precisa e non deformata da pregiudizi ideologici. Risposta che, peraltro, per non risultare astratta, deve quantomeno prendere in considerazione tre elementi: la tecnica giuridica che occorre utilizzare quando si opera una riforma costituzionale di alto profilo com’è questa; gli obiettivi di politica costituzionale e del loro grado di fattibilità che la riforma intende perseguire; il contesto storico in cui la riforma è destinata ad operare. Elemento quest’ultimo essenziale ove si muova dalla premessa che le costituzioni, a differenza delle leggi ordinarie, appartengono per la loro natura più alla storia che alla politica, dal momento che esprimono norme di «lunga durata» destinate a tenere unito un tessuto sociale nell’arco di più generazioni. Partiamo dalla tecnica costituzionale. Su questo terreno il «premierato», così come risulta configurato nel testo approvato dal Senato e che la Camera sta esaminando, non può funzionare e ancorché corretto difficilmente potrà funzionare se resta immutato il suo nucleo ispiratore centrale. E questo non solo e non tanto per l’assenza del suo elemento più qualificante (qual è la disciplina elettorale congiunta del Presidente del Consiglio e delle Camere), quanto per la finalità del tutto irrealistica con cui il progetto si sforza di combinare il presidenzialismo più radicale con una tradizione parlamentare azzerata nella sostanza, ma conservata nella forma. Il voto di fiducia ed il potere di scioglimento delle Camere, strumenti tipici del governo parlamentare, vengono infatti con questo modello apparentemente conservati, ma di fatto sottratti sia al Parlamento che al Presidente della Repubblica per essere collocati dentro la sfera decisionale del Presidente del Consiglio trasformato, attraverso il surplus di legittimazione determinato dall’elezione diretta, in un Capo del Governo. Il fatto è che questa riforma, sotto una forma parlamentare che finge di conservare, mira nella sostanza a concentrare la guida sia del potere esecutivo che del potere legislativo nelle mani di una sola persona fisica non più limitata e condizionata, come nel governo presidenziale, da una effettiva separazione dei poteri o dalla presenza di contropoteri adeguati. La forma che ne deriva, oltre che inedita, è assolutamente anomala, perché segnata dal forte squilibrio indotto dal diverso grado di legittimazione conferito ad un Presidente del Consiglio, espressione della maggioranza, ma investito direttamente dal popolo, che viene contrapposto ad un Presidente della Repubblica, espressione dell’unità nazionale, ma che gode soltanto di una investitura indiretta espressa da un voto parlamentare. Una formula così scompensata non può che aprire la strada, al vertice, ad un conflitto permanente e alla base, al disordine politico derivante dalla possibile contrapposizione tra maggioranze diverse. Passando poi all’esame del profilo che attiene alla politica costituzionale la prima domanda da fare è se esistono oggi in Italia le condizioni per operare nel governo del Paese un passaggio di questa portata. Tutti concordiamo nel fatto che i nostri Governi vanno stabilizzati perché hanno avuto sinora una vita troppo precaria, ma la stabilità politica è un dato che, più che dal modello costituzionale, scaturisce dal grado di coesione espresso dalla base del sistema politico. In altri termini, in un impianto democratico, non si rafforza la stabilità del potere esecutivo partendo dall’aumento dei poteri formali del suo vertice, bensì dal buon funzionamento della legislazione elettorale e dalla disciplina dei partiti politici. Per questo è indubbio che nella attuale situazione della democrazia italiana, strutturalmente sorretta da un sistema politico oltre che frammentato fortemente diviso, aumentare il potere della persona fisica chiamata a guidare l’esecutivo più che a rafforzare la governabilità può condurre ad accentuare la conflittualità interna al sistema e la sua instabilità con il rischio di aprire la strada, in situazioni di emergenza, a svolte autoritarie. Svolte suscettibili di incidere in quel quadro delle libertà che è stato tracciato nella prima parte della costituzione che si afferma di non voler toccare, ma che trova la sua fondamentale garanzia nella riserva di legge e nella riserva di giurisdizione, cioè in strumenti che presuppongono l’esistenza sia di un Parlamento politicamente forte che di un potere giudiziario realmente indipendente. Consideriamo, infine, il richiamo alla proiezione storica entro cui, come sopra si diceva, ogni costituzione o riforma costituzionale vanno necessariamente collocate. Su questo piano è appena il caso di ricordare che la nostra costituzione, nata dall’esperienza di una dittatura e di una guerra civile, s’ispira a principi esattamente opposti a quelli che questa riforma sottintende e intende affermare. Principi che la Costituente incentrò sulla difesa della persona e sul pluralismo sociale e politico imponendo di conseguenza, al livello dell’azione di governo, la necessità di evitare una concentrazione del potere nelle mani di un solo organo tanto più se unipersonale. Per questo la costituzione, tenendo conto della tradizionale disomogeneità della nostra base sociale, ha adottato un impianto garantista che ai sensi del suo primo articolo attribuisce l’esercizio della sovranità non alla maggioranza, ma al popolo nel suo complesso «nelle forme e nei limiti» di una costituzione rigida che colloca nel Parlamento, espressione di tutte le componenti politiche del Paese, l’asse portante del potere, mentre affida a due organi costituzionali indipendenti dalla maggioranza quali il Capo dello Stato e la Corte costituzionale una efficace funzione di controllo costituzionale. Questo modello nacque quasi ottanta anni fa per l’azione di forze politiche ispirate da ideologie diverse, ma unite nel rifiuto del modello autoritario imposto dal fascismo. Un rifiuto che, nonostante il tempo trascorso ed il tramonto delle ideologie, conserva ancor oggi il suo significato per chi crede nel valore della democrazia e dei suoi principi fondamentali che la nostra carta repubblicana ha sinora bene interpretato.
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