Chi è un populista? Uno che fa promesse da marinaio, diremmo d’impulso: conscio di non poterle davvero mantenere. Ma basta cambiare la domanda per capire qualcosa di più: cos’è un populista? Qui la risposta si fa decisamente più articolata e non può non pescare nel nuovo corso del trumpismo, per poi coinvolgere fino in fondo noi europei. Yascha Mounk s’è spinto a sostenere che con il secondo mandato di The Donald alla Casa Bianca è iniziata l’era del populismo multietnico e aspirazionale.
Il giovane politologo de La trappola identitaria, colpito dalla citazione del «sogno di Martin Luther King» nel discorso inaugurale del neopresidente, ha osservato come la base del vecchio partito repubblicano sia profondamente cambiata, includendo latinos, asiatici, afroamericani (il capo dei Proud Boys è afrocubano…), tutti nuovi elettori di Trump e tutti da lui debitamente ringraziati. L’idea del populismo come ricetta buona ad attrarre maschi bianchi, anziani e reazionari, in America non regge più. Nuove generazioni di migranti regolari, nuovi americani lontani dall’iconografia wasp, vedono come una minaccia la frontiera con il Messico, troppo facilmente permeata dai clandestini, e come un’inutile costrizione le quote «DEI» (diversità, equità, inclusione) in un Paese assai diverso da quello dei nonni e dei genitori, dove hanno voglia di competere con le proprie forze; anche le guerre per la libertà dell’Europa, per chi non ha radici europee, appaiono meno comprensibili e non giustificano il sacrificio dei giovani americani.
E così ecco la risposta alla nostra seconda domanda: un populista è una sorta di ripetitore; una gigantesca antenna piantata in una comunità, capace di captarne i bisogni e di rilanciarli amplificati. Trump può spaventarci e persino indignarci, ma sin dal suo primo mandato ha mostrato di avere almeno questo talento coi suoi forgotten men, i dimenticati dal successo globalizzato. Ed è a questo punto che la lezione americana comincia a riguardarci.
In una realtà politica disarticolata e in rapida trasformazione, vanno creandosi anche nelle nostre società aggregazioni pragmatiche che sfuggono al vecchio schema binario destra-sinistra: su questioni che attengono alla vita di tutti, come ad esempio l’immigrazione clandestina, con l’inevitabile corollario della sicurezza.
Questa semplice constatazione ha spinto, come sottolineato da Antonio Polito su queste colonne, alcuni leader della sinistra europea a fare la faccia feroce coi migranti per recuperare consensi: il premier inglese Starmer, «copiando» Trump, pubblica i video delle loro deportazioni, il tedesco Scholz sospende il trattato di Schengen, lo spagnolo Sánchez tenta con partner africani gli stessi accordi fatti dalla nostra Giorgia Meloni in Tunisia (e da Minniti in Libia, a suo tempo). Ma qui si aprono due ordini di problemi. Innanzitutto, com’è ovvio, gli elettori tra l’originale e una sua imitazione un po’ forzata scelgono spesso l’originale (la destra). In secondo luogo, non c’è nulla di meccanicamente trasferibile da una realtà sociopolitica all’altra: in soldoni, non tutti gli ingredienti degli Usa fanno una buona minestra europea. Il nostro welfare universalistico è imparagonabile a quello residuale e privatistico americano, ciò che per la vecchia Europa è un rischio per un’America ancora giovane può apparire un’opportunità. Più che mai al di qua dell’Atlantico, dunque, quando parliamo di sicurezza dobbiamo essere capaci di declinarla in due modi: la sicurezza delle frontiere e lo stato di sicurezza sociale. Keynes, che visse da testimone privilegiato gli eventi che portarono alle grandi guerre del Novecento, centrò i suoi saggi proprio sulla questione dell’incertezza: era quella psicosi collettiva ad avere corroso le istituzioni liberali.
Per uscire dal raffronto, le comunità politiche europee, e segnatamente i progressisti se vogliono ancora competere con le destre emergenti, devono trovare il modo di conciliare due «esse»: sicurezza e solidarietà. Andare «oltre la paura» è un bello slogan ma va riempito. Oltre la paura ci sono le categorie del nostro disagio sociale, segnate da timori, diremmo, «keynesiani»: la risposta allo stato di incertezza sul futuro è la fiche in più da giocare sul tavolo. Una fiche costosa, specie in costanza dell’ormai inevitabile impennata di spesa e debito per la difesa europea. E, tuttavia, se gravi pericoli incombono alle frontiere, pericoli non minori possono derivare da un collasso del fronte interno. Non si tratta solo di svuotare stazioni e sottopassi dai migranti irregolari, si tratta di rispondere alla domanda di protezione sociale dei migranti regolari e degli autoctoni, evitando che il disperato attrito tra disagiati infiammi una convivenza civile già surriscaldata dalla propaganda sovranista. In un bellissimo saggio, Guasto è il mondo, Tony Judt parlava di «socialdemocrazia della paura». Pare un nonsense rispetto all’idea diffusa che abbiamo della paura come rampa di lancio per i nuovi totalitarismi del XXI secolo: ma non lo è. Indica piuttosto una strada di difesa e di diffusione delle leggi, dei servizi e dei diritti che l’Europa ha conquistato nel Novecento. È questa la promessa per tenere insieme le mille diversità della nostra convivenza difficile, il nostro prezioso Dna. Può far sorridere in questi giorni di sbandamento dell’Unione europea. E invece sicurezza e stabilità derivano anche dalla salvaguardia di chi è minacciato di estinzione economica. La grande antenna populista piantata nelle nostre società ha un limite: non trasmette soluzioni serie e praticabili, come dimostra la storia. Ma i suoi segnali possono comporre una mappa preziosa per chi, pur avendo risposte da attingere in un patrimonio di libertà e democrazia, ha smesso di ascoltare il grido di dolore delle proprie comunità.
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