In un famoso studio degli anni Novanta del secolo scorso, Making democracy work il politologo di Harvard Robert D. Putnam utilizzava la storia regionale italiana per illustrare gli ingredienti di una ricetta che potesse convertire la società civile in comunità politica efficace. Tra questi, lo studioso americano identificava le istituzioni di cooperazione sociale. E così, quando mi sono trovato a riflettere sul mio discorso, non ho potuto che chiedermi: se Putnam avesse scritto il suo libro oggi, quale ruolo avrebbe dato alla società civile per “far funzionare la democrazia” a fronte di un ambiente che cambia in maniera sempre più radicale?
Il problema non è teorico. Bisognerebbe essere singolarmente distratti per non accorgersi che qualcosa sta succedendo. Il Po in secca ha accompagnato l’estate dell’anno scorso e si preannunciava come il protagonista di quella a venire. Poi, poche settimane fa, ci siamo ritrovati ad affrontare una pioggia catastrofica in Romagna. Il tutto accompagnato da tragedie come Ischia e la Marmolada.
La risposta del governo è stata emergenziale. A fronte di eventi straordinari, l’istinto è il regime di eccezione. Commissari, leggi speciali, cabine di regia. Tutto serve (e deve funzionare) nel momento della catastrofe. Si rischia però il ritardo rispetto alla realtà: per mesi si è discusso dei poteri del commissario per la siccità, per poi trovarsi a guardare impotenti mentre l’alluvione sommergeva Lugo. In realtà, ciò che sta accadendo non è una sequenza imprevedibile di catastrofi, ma un unico fenomeno. Se vi chiedete come si manifesti il cambiamento climatico, gli ultimi diciotto mesi ve ne danno una rappresentazione plastica. Individualmente, nulla ne è espressione univoca: quegli eventi sarebbero potuti succedere anche in passato. Ma l’aumento della loro frequenza è il sintomo di una statistica meteorologica – il clima, appunto – che cambia.
Per mediare questa statistica, nei secoli abbiamo trasformato il territorio con dighe e canali, organizzando le nostre risorse. Nel secolo scorso, poi, abbiamo convertito l’idrologia naturale in idraulica funzionale alla modernità. Quest’opera di ingegnerizzazione assoluta è la ragione per la quale nessuno in Italia, oggi, deve guadare un fiume per andare al lavoro e tutti aprono il rubinetto senza sapere da dove arrivi l’acqua oltre il muro della cucina.
Quelli di questi mesi non sono solo fenomeni naturali. Non è stata solo siccità. Nel Po, abbiamo avuto esperienza di scarsità, di non avere acqua dove e quando normalmente la portiamo. Non abbiamo solo osservato precipitazioni estreme. In Romagna l’acqua si è rimpossessata del territorio che controllavamo. Questi eventi sono quindi anche il fallimento di istituzioni e infrastrutture che dovevano emanciparci dalla variabilità climatica.
A fronte di questi cambiamenti, una nuova trasformazione del territorio è inevitabile. Ciò non significa “cementificazione” o solo opere idrauliche, seppure serviranno anche quelle. Significa cambiare la gestione di foreste e campi per controllare il deflusso, ridisegnare le campagne per difenderci dalle alluvioni, e altro. Significa cambiare ciò che vediamo quando guardiamo fuori dalla finestra, insomma.
Tutto questo non può essere il prodotto di un piano scientifico, anche se di conoscenza tecnica si deve avvalere. Deve essere il risultato di un processo politico. Si tratta di esprimere una visione collettiva di cosa sia la nostra casa, un esercizio che richiede discussione, intermediazione, e rappresentanza a tutti i livelli della società italiana.
E qui la società civile, quella che ispirò anche Gramsci, gioca un ruolo fondamentale. La rete complessa di cooperative di consumo e agricole, di consorzi di bonifica e organizzazioni locali, rappresenta una tradizione di cooperazione territoriale formidabile. È il tessuto dendritico che storicamente connette la Repubblica al paesaggio nazionale.
Queste istituzioni tipicamente italiane possono sembrare obsolete nella realtà tecnologica del ventunesimo secolo. Spesso faticano ad affrontare le pressioni economiche di una modernità globalizzata, e a volte rischiano di rappresentare solo interessi corporativi e miopi. Ma, come notò Putnam trent’anni fa, al loro meglio sono potenti istituzioni di autorialità collettiva, nate da un’esigenza reale di intermediazione e partecipazione civica.
Oggi, la gestione dell’acqua è responsabilità civica. Il compito fondamentale delle organizzazioni della società civile e della cooperazione sociale è quello di mobilitare i cittadini ad esercitarla.
https://www.ilsole24ore.com/art/perche-gestione-dell-acqua-e-sempre-piu-responsabilita-civica-AEVi07hD
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