Per non restare un mondo in fame, di Enrico Giovannini

Nel film di animazione “Inside out” si racconta di come i comportamenti di una bambina (divenuta adolescente nel sequel) siano frutto di una continua “battaglia” tra sentimenti contrastanti: gioia, rabbia, tristezza, ecc. Usando lo stesso meccanismo per descrivere come reagiamo alle notizie sulla fame e la malnutrizione nel mondo, credo che i protagonisti del film sarebbero: noia, scetticismo, assuefazione, disinteresse e così via.
Purtroppo, il nostro cinismo non risolve, e non risolverà in futuro, questo problema che affligge oltre 730 milioni di persone in tutto il mondo, circa il 9% della popolazione mondiale. Peraltro, come evidenziato nel rapporto redatto da cinque organizzazioni internazionali in occasione della riunione di questa settimana del G20 a presidenza brasiliana (a cui Avvenire ha dedicato l’apertura dell’edizione di giovedì), l’incidenza della fame e della malnutrizione è sostanzialmente stabile dal 2020 e nel 2030, a meno di un radicale cambio delle politiche, avremo ancora circa 580 milioni di persone in questa condizione, a fronte dell’obiettivo “fame zero” sancito nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile concordata dai 193 Paesi dell’Onu nel 2015. Il fenomeno riguarda soprattutto l’Africa (dove una persona su cinque soffre di questa deprivazione), mentre in Asia il fenomeno è stabile e è in significativa riduzione in America Latina. Se invece guardiamo al concetto di “insicurezza alimentare”, cioè la possibilità di seguire una dieta appropriata, allora abbiamo circa 2,3 miliardi di persone (il 28,9% della popolazionale mondiale) in tale condizione.
A fronte di circa un miliardo di persone (160 milioni di bambini e adolescenti e 879 milioni di adulti) che soffrono di obesità, la cui incidenza a livello globale è più che quadruplicata tra il 1990 e il 2022.
Le cause della fame e della malnutrizione le conosciamo: guerre, crisi climatica, crisi economiche, modelli sbagliati di consumo e di produzione (lo spreco alimentare globale è pari al 19% del cibo prodotto), carenze nelle politiche e scarso coordinamento degli interventi delle organizzazioni internazionali. In particolare, la crisi climatica sta determinando, soprattutto in Africa ma non solo, danni senza precedenti ai sistemi agricoli, obbligando decine di milioni di persone a migrare o a dipendere dagli aiuti pubblici o privati, compresi quelli gestite dalle Ong e dalle chiese locali, che svolgono una funzione straordinaria specialmente nelle aree più difficili del Pianeta.
Come dice papa Francesco, e come è ben sottolineato dall’Agenda 2030, tutto è connesso. Proprio per questo dovremmo capire che abbiamo bisogno di un approccio olistico al problema. Dal G20 brasiliano è venuta la creazione di una “Alleanza globale contro la fame e la povertà” al fine di realizzare quel cambio di passo che il rapporto delle organizzazioni internazionali propone, a partire da un nuovo modo di misurare l’impegno finanziario per la lotta alla fame e alla malnutrizione. L’Alleanza dovrebbe, tra l’altro, favorire la capacità dei Paesi più bisognosi di accedere ai finanziamenti internazionali, ridurre la frammentazione degli interventi sostenuti dalle banche regionali di sviluppo, aumentare l’efficacia e il coordinamento delle azioni di emergenza, e di molto altro.
Ma non c’è dubbio che il tema chiave sia quello dell’insufficienza delle risorse, tanto più a fronte di un contemporaneo aumento delle spese in armamenti nei Paesi del G20. Per questo, si sta discutendo anche la proposta di tassare i “super ricchi” in tutto il mondo, ma le resistenze di alcuni Paesi del G7, come la Germania e gli Stati Uniti, sta impedendo un accordo. Senza una riforma profonda del sistema fiscale e finanziario internazionale sarà molto difficile affrontare con successo questa sfida, come le altre sfide dell’Agenda 2030, dall’educazione alla salute, dalla transizione ecologica all’eliminazione della povertà estrema, dalla riduzione delle disuguaglianze alla tutela dell’ambiente. Sono i temi che verranno discussi anche nel corso del “Summit sul Futuro” che si terrà a settembre alle Nazioni Unite. Un accordo in sede G20 su queste tematiche sarebbe un segnale importante anche in vista del Summit, momento decisivo per mostrare al mondo che la cooperazione multilaterale non è morta, ma, con tutti i suoi limiti, è viva e lotta insieme a tutti noi.
Per ciò che concerne l’Italia e l’Unione europea, il tema ineludibile è quello dello sviluppo sostenibile del continente africano. Se l’Africa adottasse un modello di sviluppo come quello che ha caratterizzato finora il mondo industrializzato e i Paesi emergenti ciò comporterebbe un disastro planetario. Per questo, come proposto nell’ultimo Rapporto dell’ASviS, l’Europa e l’Italia devono assumere un ruolo molto più forte, sia sul piano quantitativo che qualitativo, per il futuro del continente (e quindi anche nostro), all’insegna dei valori dell’Agenda 2030.

*Direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)

avvenire.it/opinioni/pagine/il-rapporto-per-non-restare-un-mondo-in-fame

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