Per l’Europa il nuovo confine è la «questione verde», di Antonio Polito

Come la «questione democratica» nell’800 e la «questione sociale» nel ‘900, la «questione verde» si candida a diventare il nuovo grande discrimine tra destra e sinistra degli anni 2000. Non avviene di frequente che il Parlamento europeo, di solito assemblea sonnacchiosa e non usa a dividersi sui grandi ideali, si spacchi come ieri in uno scontro all’ultimo voto sulla legge detta del «Ripristino della natura» (vaste programme , avrebbe chiosato De Gaulle). È andata in pezzi la Grande Coalizione che regge la Commissione von der Layen: i Popolari di Weber hanno tentato il colpaccio alleandosi con le destre per far fallire il progetto, mentre le sinistre unite hanno sostenuto la legge di Timmermans, il commissario al Green Deal che sta diventando lo spauracchio di molti governi europei.
Che la transizione ecologica fosse un pranzo di gala potevano del resto pensarlo solo gli ingenui e gli utopisti. Sembra piuttosto fatta apposta per aprire divisioni nelle società opulente sulla base di interessi materiali e molto concreti, un tempo si sarebbero detti «di classe». Da un lato i ceti urbani, dall’altro quelli rurali. Da un lato i nuovi lavoratori dell’economia immateriale e digitale, che vorrebbero un mondo più rispettoso della natura, dall’altro chi lavora con la terra, i trasporti, gli animali, e dalla natura trae il suo reddito.
Da un lato i giovani che seguono Greta e si preoccupano del futuro del Pianeta perché è anche il loro, dall’altro chi teme di impoverirsi oggi in cambio di un domani che probabilmente non vedrà. Ci sono insomma tutti gli elementi per il grande dramma sociale, del genere che mette contro generazioni e ceti, che si trasforma in una «guerra culturale» tra progressisti e conservatori, tra rivoluzionari e reazionari. Stavolta ha vinto la sinistra in parlamento, ma alle prossime europee la destra tenterà la rivincita nelle urne, sfruttando il malcontento crescente soprattutto tra i contadini, i pescatori, i trasportatori, i proprietari di case, infastiditi dall’intromissione di un potere sovranazionale nelle loro vite quotidiane, perché costretti a spendere di più o a guadagnare di meno, a cambiare auto o a usare meno pesticidi, oppure a perdere superfici coltivabili (la legge prevede di «restaurare» il 20% delle aree terrestri e marine di tutta l’Europa da qui al 2030 per preservare la biodiversità).
In Francia, in Olanda, in Polonia e anche in Italia i governi sono molto allarmati. In Germania la crescita improvvisa della destra estrema è messa in relazione anche a una nuova ondata anti-Bruxelles. Tant’è che i Popolari si sono staccati dalla loro presidente von der Layen (tranne 21 deputati) pur di non farsi scavalcare a destra, e anzi facendo le prove generali di nuove maggioranze future con la destra: accusano il commissario Timmermans di essere un pasdaran dell’ambiente che porterà solo voti all’estremismo anti-ecologico.
Che la direzione di marcia indicata dalla Commissione sia giusta, c’è poco da discutere. Il global warming è un fatto, e grave, e per quanto si possa dibattere se è interamente causato dai comportamenti umani, come pensa la maggioranza degli studiosi, o invece è un evento in gran parte naturale, simile ad altri avvenuti nella storia della Terra, ridurre drasticamente le emissioni è comunque una cosa buona, necessaria, urgente. Ma in politica i tempi sono tutto, ed è ormai aperto il dibattito se la Commissione non stia sbagliando ad accelerare di continuo, rischiando così di perdersi per strada il consenso di una buona fetta di cittadini europei. Il che, alla lunga, minerebbe anche i risultati del suo sforzo.
Molti si chiedono per esempio se abbia senso fissare di continuo obiettivi così ambiziosi da apparire il più delle volte irrealistici. Sul Foglio Chicco Testa ha segnalato che l’Italia dovrebbe immatricolare da qui al 2030 un milione di auto elettriche all’anno, sul milione e 300 mila complessivo, ma l’anno scorso è arrivata solo a 50 mila. Sembrano cifre buone più per spaventare che per motivare il cambiamento. Come i tre miliardi di alberi da piantare nello stesso breve periodo.
Si può obiettare che non abbiamo il tempo di procedere con prudenza e gradualità. Perché, come dicono molti, il Pianeta sta per morire. Ma gli esseri umani fanno programmi per il futuro remoto solo se credono di averne il tempo e di poter davvero fare la differenza.
L’Europa produce appena l’8-9% delle emissioni globali. Le quali, da quando si è deciso di limitarle, crescono, producendo nuovi picchi nel consumo di carbone e petrolio. Questo avviene perché, nonostante si accrescano in percentuale le fonti rinnovabili, aumenta di continuo e di più anche il fabbisogno generale di quel Sud del mondo (pensiamo all’India) che emerge e che crede di avere uguale diritto al benessere. Non sarà l’Europa a fare la differenza, in questa grande corsa.
Si dice spesso che la via più diretta da un punto all’altro non è la linea retta. E in ogni caso il percorso più veloce non è sempre quello che ti porta alla meta. La politica è stata inventata proprio per perseguire il bene comune senza creare una coalizione di intessi «particolari» in grado di impedirlo. Tocca ai vertici europei, che tra l’altro l’anno prossimo cambieranno con le elezioni, e tocca ai governi nazionali fare in modo che l’indispensabile transizione ecologica non fallisca, trasformandosi in un aspro e inconcludente conflitto tra Stati, tra popoli, tra cittadini.
https://www.corriere.it/editoriali/23_luglio_12/per-l-europa-nuovo-confine-questione-verde-82a02912-20e6-11ee-a8dc-d9488408334d.shtml?refresh_ce

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