Per la sanità una cura di giustizia contro la medicina che discrimina, di Filippo M. Boscia

Osservatori socio-sanitari, società di analisi e gran parte di associazioni e federazioni hanno lanciato tre allarmi: la sanità si è ammalata nel mondo; i medici sono pronti a mollare; l’asino del Samaritano si è azzoppato. Viviamo in una società che ha perso la retta visione dei valori inalienabili, lo sguardo caritatevole del care, e allontanandosi dalla condivisione della sofferenza si sta privando del sentimento della compassione. La “questione medica” ci chiama in emergenza a difendere la sanità pubblica in un momento nel quale il personale medico è al collasso e l’accorpamento dei reparti è in fase di attuazione, mentre 15 anni di tagli hanno ridotto il Servizio sanitario nazionale allo stremo. Abbiamo generato un’organizzazione sanitaria tecnologicamente e informaticamente avanzata, ma sempre più disumanizzante. La spinta innovativa propone nuove tecnologie e più accelerato turnover, ma gli investimenti richiesti non sono oggi sostenibili e il sistema welfare è già da tempo in rendicontazione traballante. Il rilancio della Sanità è richiesto dal 92% degli italiani e dal personale medico.
Abbiamo bisogno di rafforzare le strutture pubbliche per evitare che possano escludere molti da cure non più sostenibili. Intanto medici e specializzandi in fuga da ruoli di emergenza/urgenza e sempre più esposti a necessità assicurative non sostenibili decidono di mollare. I posti disponibili nelle scuole di specializzazione vanno deserti. Siamo in emergenza e il mondo medico si chiede “chi cura/curerà i curanti?”. Interrogativo emerso anche nella recente assemblea dei Medici cattolici italiani di Assisi che, tra l’altro, ha chiamato politici e non alle loro responsabilità per una deriva dei servizi sanitari, mutati da universalistici e solidaristici a medicina degli scartati. Quanto alla Medicina di famiglia, rielabora l’anima buona della sanità e auspica sinergie nuove che ne tengano solide le fondamenta. Desideriamo guardare al domani con sguardo nuovo, come auspicato dal presidente della Repubblica Mattarella.
L’ospedale accogliente e disponibile sta lasciando spazio all’Azienda, ridotta da fatto positivo a negatività, dispersa tra acronimi, stabilimenti di cura e dipartimenti: macchina organizzativa e gestionale immemore del valore dei sofferenti, del patio, dell’accoglienza “ospitale”, oppressa da rendicontazione computerizzata, atti informatizzati, linee guida non personalizzate, malattie escluse e non ancora codificate che motivano il malato a chiedersi “dove vado?” e non “da chi vado?” Certamente si va verso la negazione del principio costituzionale del diritto alla salute, non più assoluto ma diventato relativo, annoverato tra quelli relativi, subordinati alla discrezionalità del legislatore, con disponibilità finanziarie che condizionano qualità e livello delle prestazioni sanitarie.
I criteri meramente economici confliggono con i princìpi di equità e pari dignità della persona, oggi “utente-cliente”, homo economicus di una medicina erogata con la sveglia al collo. Si invoca più salute, benessere, prevenzione e istruzione per tutti, a fronte di definanziamenti. La spinta a erogare sempre più prestazioni mutila un rapporto umano essenziale, irrinunciabile, che richiede competenze tecniche e metodologie interdisciplinari ma che non può prescindere da vicinanza, conforto, con-passione, condivisioni… Una debacle che taluni utilizzano per spingere verso assicurazioni integrative volontarie o bonus salute aziendali, innovativi sistemi ed evoluzioni di cura premiate da detraibilità fiscale. Ma se allo stesso tempo si incentivano o defiscalizzano i piani di sanità integrativa il risultato sarà far diminuire le risorse destinate dalla fiscalità generale al Servizio sanitario universalistico e solidaristico.
La contraddizione diventa marcata considerando che i piani sono stati proposti come benefit in contrattazioni di lavoro, collegando il diritto alla salute con il possesso di un’occupazione, e i senza lavoro ancor più penalizzati ed esclusi. In ospedali e cliniche la doppia fila è reale: da una parte gli “assicurati”, dall’altra i “figli di un dio minore”. Devastazione discriminante inaccettabile, insensata, che fa saltare i princìpi di equità e pari dignità, crea paradossi e dilemmi esistenziali. Queste direzioni anomale delle politiche della salute creano contraddizioni, rinuncia e fuga del cittadino dalla sanità pubblica a quella sanità privata o telematica. Chi opta per fondi di assistenza personale contribuisce a uccidere il fondo universalistico, così che la Sanità cambia volto: incapaci di comunicare dal vivo, avremo una “sanità fai da te”, la parcellizzazione delle cure sempre più specialistiche e meno coordinate, e una grammatica emotiva ridotta al minimo.
La tecnologia che diventa automazione, col progressivo sviluppo dell’intelligenza artificiale e la globalizzazione metaversoorientata negano la questione della prossimità rapportata ai bisogni della persona. Per agire con concretezza su questi problemi oggi va ripensata tutta la medicina, coltivando l’etica del come fare la cosa giusta al momento giusto sapendo scegliere tra bene e male.

Un notissimo ospedale pugliese, eccellenza per numerose branche medico-chirurgiche oncologiche e radioterapiche, l’ente ecclesiastico no profit Ospedale Miulli di Acquavuva delle Fonti (Bari), è costretto a interrompere le prestazioni, pur se continuative di follow-up già prenotate, per pazienti provenienti da regioni limitrofe a causa di tetti invalicabili di spesa. Disuguaglianza è anche questo innalzare barriere tra Regioni, ancor più se in condizioni di svantaggio sociale, dove più ci si ammala e si guarisce meno. Privare della cura il sofferente è disumano, ma fotografa quanto accade nella Sanità: un’esperienza che priva della libertà di scelta del luogo di cura più congeniale, e anche della speranza.
La Medicina deve “stare con”, socializzare, perché la cura delle persone è molto più della cura delle malattie. Non allarghiamo la forbice tra chi può e chi non può accedere a cure salvavita, e che può anche morire. E vigiliamo perché il federalismo fiscale, per ora ancora solidale, non leda l’uguaglianza dei cittadini. Gli avanzamenti del segmento “missione/salute” del Pnrr non tradiscano gli obiettivi né impediscano la realizzazione di progetti oggi fermi ma favoriscano la corretta gestione delle risorse per risposte mirate in relazione alla piaga dell’intramoenia, alle liste d’attesa e alla presa in carico dei pazienti. L’intramoenia è tarlo preoccupante da abolire, causa di sperequazioni e ingiustizie. Inseriamo, viceversa, i medici nelle attività aggiuntive, per una gestione onesta e partecipata, vigilata e controllata.
L’incontro tra fiducia e coscienza si ricomponga per reciproca collaborazione di stima/ fiducia, di relazione che si fa cura e tutela della salute. Si annulli il rapporto di clientela tra azienda e utente. Le abilità acquisite dal pubblico non siano catturate dal privato (che offre maggiori retribuzioni), con una perdita netta del capitale umano. Il futuro della sanità e del diritto universale alle cure dipende da noi, dall’impegno che si pone all’attenzione medica, questione epocale che non deve smarrire la propria identità che dà forza alla nostra umanità. I sistemi sanitari rimettano al centro la figura del medico di famiglia. Ogni medico fedele al Giuramento di Ippocrate riscopra nell’umanità la sua vera intraprendenza coraggiosa.

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/per-la-sanit-una-cura-di-giustizia-contro-la-medicina-che-discrimina

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