Ci risiamo. Qualcuno, non chi scrive, ne avrà sentito la mancanza ma si sono riaperti i fuochi d’artificio sull’Europa matrigna responsabile di ogni nefandezza che ammorba i nostri, diversamente fortunati, giorni. Il Ministro Salvini, di cui si ricordano gli intemerati proclami contro l’euro, durante il periodo del Covid aveva rinfoderato la spada; di fronte all’evidenza di un’Italia che, senza gli aiuti sanitari e soprattutto senza gli oltre 100 miliardi di prestiti a tasso pressoché zero e gli 80 in regalo da parte dell’Unione europea, avrebbe dovuto dichiarare bancarotta. Ma, si sa, noi italiani abbiamo la memoria corta e siamo pronti a scordarci del passato e seguire la manzoniana esortazione del «dagli all’untore!». E l’untore oggi riassume le vesti dell’Unione europea che, irresponsabilmente, ci costringe senza batter ciglio a subire l’arrivo di migliaia di disperati senza accorgersi, così facendo, di essere ormai «morta» su quelle coste. La palese contraddizione è che per «governare» gli sbarchi ci sarebbe invece bisogno di «più Europa», proprio quella aborrita dai nazionalisti della destra continentale.
Questa, dovrebbe spiegarci con un’analisi seria e approfondita, e non con qualche slogan, quale sarebbe il radioso futuro che attenderebbe l’Italia chiamata da sola (o al massimo affiancata da Paesi come l’Ungheria e la Russia) ad affrontare con efficacia sfide terribili quali, appunto, flussi migratori, tragedie climatiche, crisi economiche e finanziarie, competitività delle imprese, risorse energetiche e idriche, ruolo internazionale, lotta alla criminalità organizzata. Si tratterebbe di far finta di governare, dovendo invece andare al rimorchio di scelte effettuate altrove.
Il sogno di una notte di fine estate della morte dell’Europa sarebbe legato ad un ribaltone politico che vedrebbe emergere dalle elezioni del Parlamento europeo del prossimo anno una maggioranza di centro-destra avente l’evidente obiettivo di cancellare ogni ipotesi di rafforzamento del processo d’integrazione europea per ridurla ad un mero mercato comune (e nemmeno unico, qual è oggi).
Ma una diversa maggioranza che, soprattutto dopo le realistiche considerazioni del capogruppo del Partito Popolare Europeo Manfred Weber e l’investitura progettuale affidata a Mario Draghi dalla sua collega di partito Ursula von Leyen, appare verosimilmente tramontata. L’Unione europea, ovviamente, non è perfetta ma gran parte dei suoi limiti derivano dal peso decisionale che è tuttora, prevalentemente, nelle mani dei governi degli Stati membri. Di qui la necessità di una seria riforma, come auspicato dalla Conferenza sul Futuro dell’Europa a seguito di una buona partecipazione democratica.
Nella propaganda anti-europeista rientra poi l’ormai quotidiano, singolare e inusitato attacco a Gentiloni, membro della Commissione proposto a suo tempo dall’Italia, reo di non difendere abbastanza i nostri interessi. Per carità, nessuno immagina che una volta nominati i Commissari si dimentichino della loro cittadinanza. Ma «est modus in rebus»! L’Abc del sistema istituzionale dell’Unione prevede esplicitamente che «la Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza… i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo» (art. 17, par. 3 TUE). Inoltre, «gli Stati membri rispettano la loro indipendenza e non cercano di influenzarli nell’adempimento dei loro compiti» (art. 245, comma 1 TFUE).
Per di più, nessun Commissario, fra l’altro legato tecnicamente a una struttura amministrativa di grande competenza, non opera singolarmente in quanto l’istituzione ha una responsabilità politica collegiale. E, proprio per evitare «disguidi» di questa natura, il Trattato di Lisbona aveva previsto la riduzione del numero dei Commissari da uno per Stato membro a quello dei due terzi (art. 17, par. 5 TUE). Ma, guarda caso, finora tale riforma non ha avuto seguito.
Comunque, la possibilità di evidenziare, entro certi limiti, gli interessi nazionali anche in funzione di quello generale può solo avvenire dietro le quinte, non pubblicamente, in una complessa opera di mediazione. Fra l’altro, possiamo immaginare la «popolarità» di cui gode in questo momento l’Italia che si rifiuta di ratificare il nuovo Trattato MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Si ricorda che nel 2021 fu adottata una limitata riforma del Trattato, fra l’altro tuttora vigente, con la quale è anzitutto prevista la possibilità di fornire una rete di sicurezza finanziaria al Fondo di Risoluzione comune per le banche, al fine di contenere i rischi di contagio nel caso di crisi bancarie.
Ebbene, l’Europa dopo che l’hanno già fatto gli altri 19 Stati membri, attende la ratifica da parte dell’Italia che, invece, sta ponendo un veto ingiustificato in quanto nessuno potrà mai obbligare il nostro Paese ad utilizzare tale strumento.
Ennio Triggiani
[docente di diritto europeo, socio Cuf, Univ. di Bari; fonte articolo GdM 16,9,2023]