Mettete a un tavolo i leader di due Paesi in guerra, e il gelo si taglierà a fette. Mettete una davanti all’altra le madri di due soldati morti sugli opposti fronti in quella stessa guerra e si abbracceranno. Di là il linguaggio della politica proseguita con altri disumani mezzi, di qua l’alfabeto umano del dolore. Il primo contempla il massimo della violenza, della distruzione, dell’odio, del terrore come opzione possibile, e anzi, date certe condizioni, persino inevitabile, se non auspicato. Il secondo conosce solo la fusione delle stesse lacrime, la riconciliazione dentro una sofferenza condivisa, e chiede che tutto ciò che la genera si interrompa subito, senza distinzione di fronti e di divise.
Tra l’ancora e il basta c’è tutta la distanza siderale che passa oggi tra le situazioni terribili che vediamo ogni giorno prendere forma in Ucraina e Medio Oriente (e su tanti scenari di cui purtroppo diamo conto quotidianamente) e la sete disperata di pace dei popoli. Forse che gli ucraini e i russi, gli israeliani e i palestinesi chiedono più guerra? Serve ascoltare sotto il tuono degli obici la domanda angosciata di tutte le genti coinvolte nella spaventosa carneficina che è ogni guerra, ogni giorno: finirla adesso con la soluzione delle armi, cercando una buona volta la soluzione del parlarsi e ascoltarsi, capirsi, dentro la lingua più elementare che esiste, quella della comune umanità.
La pace, se è questa che vogliamo, nasce da un incontro: ce ne siamo ricordati proprio in questi giorni in cui si è tentato in qualche modo di restituire una chance al dialogo sul fronte europeo e interrompendo precariamente le ostilità su quello di Gaza. Ma quali siano le condizioni di un incontro che sia promettente ce lo dicono solo le persone che soffrono, certo oggi non la diplomazia o la politica estera che non sembrano saper nutrire quella «immaginazione strategica» indispensabile adesso di cui scriveva domenica Andrea Lavazza. Diversamente non se ne esce: armi più armi danno solo altra guerra, violenza da una parte e dall’altra genera altre distruzioni, in una progressione inarrestabile. Dentro questo scenario orrendo risulta infine chiaro che il solo incontro foriero di dialogo è tra persone umane restituite a ciò che sono, a quello che le unisce, e le rende colme della dignità piena, assoluta e intangibile di ogni creatura, di ogni vita, sempre. A riuscire in una impresa di questa portata titanica oggi è forse solo la consapevolezza di un dolore che ci rende appartenenti alla stessa famiglia, e che deve cessare, perché nessuno può desiderarne ancora se l’ha sperimentato di persona, se lo vede scavato uguale identico nel volto e nel corpo dell’altro, diversissimo e uguale, nemico e fratello.
A ricordarci la strada possibile per un incontro umano di questa portata è stata nei giorni scorsi Rachel, mamma di Hersh, sparito il 7 ottobre nel buco nero di Hamas, che incontrando il cardinale Zuppi pellegrino in Terra Santa con la diocesi di Bologna – ce ne ha raccontato Lucia Capuzzi domenica su queste colonne, raccogliendo la voce del presidente dei vescovi itaiani – «mi ha commosso con il suo coraggio e la sua saggezza: “Non deve esserci una gara fra i dolori. Tutti soffrono. Non voglio che la mia afflizione ne provochi altra. Unisco la mia sofferenza a quella dei tanti uccisi nella Striscia”». Come non sentire che quello che ci costituisce nel più profondo come donne e uomini, tutto insieme, può prendere la forza di un esercito se trova voce, e ascolto? «Solo quando due dolori diventano un amore unico – è la sintesi di Zuppi, che ha ascoltato quelle lacrime – troviamo la via della pace». È una vera confessione di fede nella fine della guerra, quella di mamma Rachel (Rachele che piange i suoi figli parla da secoli al cuore credente nelle pagine di Geremia), e ci riporta alla memoria tutti i gesti e le parole di riconciliazione capaci di spezzare il cerchio della guerra che produce altra guerra. Come la donna fatta prigioniera in un kibbutz che, appena liberata mesi fa, stringe la mano al miliziano col dito sul grilletto sussurrandogli “shalom”. O l’abbraccio all’Arena di Verona davanti al Papa di Maoz Inon e Aziz Sairah, il primo orfano dei genitori trucidati da Hamas nell’alba della nuova tragedia israelo-palestinese, il secondo senza più il fratello finito sotto le bombe di Tsahal. O ancora l’affetto struggente tra Roselyne Hamel e la madre di Adel Kermiche, il giovane assassino di padre Jacques Hamel, fratello di Roselyne, in una chiesa di Rouen: tutto è nato dall’incontro tra il dolore dell’una e dell’altra, capaci di comprendere che ogni logica sembrava destinata a dividerle tranne quella ferita irreparabile, trasformata invece da potenziale moltiplicatrice di risentimento e di vendetta a luogo umanissimo di un’insperata amicizia. Una rivoluzione impossibile a qualunque generale, ideologo o leader carismatico. Per fare la pace ci vuole coraggio, più che per fare la guerra: ce lo ripete il Papa, e davanti a questi gesti la sua frase appare la sola verità alla quale aggrapparci, come a un appiglio certo, dentro la menzogna della guerra.
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