Paura e delirio a Bruxelles, di Davide Arcidiacono

L’apparente calma siderale con la quale viene accompagnato il valzer europeo che deciderà il futuro del continente si sposa bene con le ansie e i giramenti di testa che si consumano dentro al Palazzo. Quello che sinora emerge, al netto dei gossip che inevitabilmente circondano questi momenti, è una divisione totale fra i gruppi, sia interni alla destra che alla sinistra. Il nome di von der Leyen, personificazione della stabilità, rappresenta l’ultima speranza di non finire in un girone infernale di scontro politico destinato a protrarsi per più del dovuto. Speranza che giorno dopo giorno si fa sempre più flebile. Per la prima volta la maggioranza sulla carta in suo favore è scesa sotto la soglia psicologica dei quattrocento voti, mantenendo un margine di meno di quaranta seggi rispetto ai 361 necessari. I franchi tiratori non sono esclusiva unicamente del sistema politico italiano e potrebbero colpire anche la precaria maggioranza composta da popolari, socialisti e liberali. Uno sfogo segreto contro l’imposizione di un secondo mandato è tutt’altro che fuori dai giochi.
Alcuni dubbi si diraderanno fra giovedì e venerdì quando al Consiglio Europeo verranno indicati i nomi dei prescelti per i cosiddetti top jobs, ovvero le cariche più ambite. Meloni punta a far valere il suo peso, ancora maggiore adesso che può vantare di essere il terzo gruppo parlamentare, dopo aver scavalcato i liberali di Renew del mai troppo apprezzato Emmanuel Macron. Proprio per questo, come noto, cercherà di temporeggiare per ampliare ancora la sua influenza, possibilmente aspettando l’annunciata disfatta del partito di governo in Francia alle prossime legislative che si terranno fra qualche giorno.
Non è però esattamente tutto rose e fiori a destra. Sebbene le notizie siano poche, confuse e contraddittorie, pare ci siano movimenti importanti per far emergere nuovi gruppi, più estremi di quelli già esistenti. Alternative für Deutschland, espulso dall’ID dopo le dichiarazioni filonaziste al quotidiano La Repubblica del proprio Presidente, vorrebbe formare una nuova realtà dalle posizioni più radicali rispetto a Marine Le Pen. Si registrano anche tensioni fra Giorgia Meloni e Viktor Orban, che sebbene concordino sugli obiettivi continuano a dividersi sul metodo. Così ecco che, naufragata la possibilità di un’entrata di Fidesz in ECR, il suo leader starebbe pensando alla formazione di un gruppo con epicentro nell’est Europa che raccolga le istanze (non apertamente filo-russe, ma quasi) di slovacchi, cechi, polacchi e sloveni. Al momento rimane ancora un’idea, ma le minacce di uscita del PiS – poi smentite – dall’ECR andavano in contro proprio a questa possibilità. Divisioni nette che, paradossalmente, favoriscono proprio l’operato di Giorgia Meloni le cui posizioni cominciano ad apparire più moderata, specie se paragonate, appunto, con quelle dei leader che tanto si stanno dando da fare per apparire più autonomi.
Sull’altra sponda la carta pazza che rischia di far saltare il banco è quella dei Verdi, gruppo a cui si è unito nelle ultime anche il partito pan-europeo di Volt, dopo una votazione interna. Per rinforzare una maggioranza pro von der Leyen decisamente instabile, la conditio sine qua non passa per le politiche green che hanno caratterizzato gli ultimi cinque anni. Impossibile non avere rassicurazioni verbali e scritte che non si continui lungo il loro solco. Ma von der Leyen, per motivi di mutate condizioni geopolitiche, oltre che elettorali – dato l’evidente exploit delle destre, che non sono mai state convinte del Deal elaborato a suo tempo dal Commissario Timmermans – finirà quasi sicuramente per dare priorità a Difesa e commercio interno. Cambiano i tempi e cambiano le priorità. Probabile dunque che i Verdi non voteranno l’attuale maggioranza.
Un altro punto caldo riguarda la fiducia fra popolari e socialisti, che sembra in queste ore mancare sempre più. Il problema riguarda il sistema di nomina. I favoriti per la guida del Consiglio Europeo e per la Commissione sono rispettivamente il socialista portoghese Antonio Costa e, appunto, von der Leyen. Ma mentre nel primo caso il voto di conferma passa per una maggioranza del 55% dei governi europei, nel secondo caso toccherà al Parlamento confermare la proposta del Consiglio – con voto segreto. Non è così da escludersi che i popolari rimangano col cerino in mano assistendo al crollo della propria leader, dopo aver aiutato ad eleggere Costa. Così al momento l’idea sarebbe quella di nominare Costa per soli due anni, riconfermandolo solamente in caso di elezione di von der Leyen. Una soluzione inaccettabile per i socialisti, anche perché nulla potrebbe restituire la prova provata che i franchi tiratori facciano unicamente parte del loro gruppo, quando in realtà i malumori più pesanti provengono proprio dai popolari stessi, che hanno approvato la loro sptizenkandidat turandosi parecchio il naso.
All’indomani delle elezioni si naviga nel consueto caos europeo, senza certezze né da una parte né dall’altra. Il momento della verità non potrà che essere il voto in Parlamento il cui esito è tutt’altro che scritto. Ma se una parte della destra già si prepara a cinque anni di opposizione, non è detto che gli stessi non possano essere chiamati a ruoli di maggiore responsabilità qualora il piano A naufragasse. E in tal caso il piano B sarebbe ancora tutto da scrivere. Più instabilità e più improvvisazione, in un contesto che tutto richiede fuorché questo.

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