La partecipazione accade. Così scriveva all’inizio degli anni Settanta l’urbanista Giancarlo De Carlo, infaticabile sperimentatore di percorsi di partecipazione popolare. Accade, proprio come una reazione chimica, quando si riesce a superare il confronto faticoso e dogmatico, la tentazione di pensare che il dialogo non serva a nulla; quando si comincia a fidarsi gli uni degli altri superando le diffidenze reciproche, riconoscendo senza timore conflitti e posizioni antagoniste, superando le paure e le ansie. Accade quando l’ambiente si scalda e si accende un confronto che non è solo mentale o intellettuale, ma anche fisico, che vibra di empatia e calore umano. Allora sì che gli esiti sono davvero imprevedibili perché dipendono non solo dalle idee in sé ma dagli uomini e dalle donne che le interpretano.
De Carlo sottolineava già allora la natura complessa della partecipazione, che sempre ha a che fare con la ragione e il sentimento, con i bisogni e i desideri, e sempre, in modo ineludibile, con i luoghi. Senza luoghi reali, senza quello spazio-tra-le-case, senza i paesi o i quartieri, senza le piazze dove le persone si incrociano, la comunità non comunica, e si trasforma in spettatrice passiva e indolente. De Carlo si rivolgeva ad un mondo semplice, in cui la dimensione comunitaria definiva il senso di appartenenza delle persone. Oggi il quadro appare decisamente più confuso: la lontananza dalla vita pubblica non si può imputare solo a scelte personali o alla scontata cifra individualista ma nasce da un profondo processo di privatizzazione degli spazi pubblici (ridotti a spazio di consumo) che in pochi decenni ha ridotto le occasioni – e così l’attitudine – di contatto tra le persone.
C’è un’immensa provincia italiana che vive fuori dai radar e dalle rappresentazioni sociali, che preferisce sparire piuttosto che reagire, che naufraga nel vuoto dei bisogni e della propria solitudine.
Ma cos’è davvero oggi la partecipazione e perché dovremmo partecipare?
Forse dovremmo accettare che la partecipazione non può darsi nelle forme del passato. Partecipare non può essere solo prendere parte – spiega la filosofa francese Joëlle Zask – come si prende parte a un banchetto o a un convegno, ma deve diventare possibilità di portare il proprio contributo, arrivando a modificare la natura stessa dei gruppi (pensiamo alla sistematica esclusione delle donne), arrivando a partecipare ai benefici derivanti dall’azione collettiva, così come avviene in un’impresa dove gli individui partecipano in forme diverse ai benefìci della società di cui fanno parte. (Le partecipanze agrarie emiliane non funzionavano esattamente così?)
Non è certo facile dare vita a contesti in cui si diano tutte e tre queste possibilità insieme. Spesso finiamo per coltivare forme di partecipazione un po’ addomesticate, confermative di scelte già prese in partenza.
Non è facile superare il paradossale destino della partecipazione: perché più essa si fa inclusiva e complessa, più risulta incapace di partorire una sintesi condivisa. La fatica di elaborare proposte e visioni (dopo la fine delle grandi narrazioni) alimenta un partecipare che oggi è soprattutto agire. Nella dimensione del fare e dell’agire è più facile sperimentare la gratificazione di veder realizzato qualcosa di concreto e in tempi ragionevoli.
È in questo spazio di azione, qui ed ora, che opera una società civile ancora sana, capace di rimboccarsi le maniche, che si prende cura dei beni comuni, che promuove progetti ecologici e di salvaguardia della natura, che si fa carico di azioni solidali rivolte ai più deboli. In molte di queste esperienze la partecipazione si dà all’interno di cerchie di socialità e di impegno civico capaci sì di coinvolgere le persone, ma che stentano ad avere rapporti con la politica e spesso ne diffidano apertamente (come ricorda Filippo Barbera nel suo libro Le piazze vuote). Il fatto che il 52% dei cattolici praticanti non abbia votato alle ultime tornate elettorali conferma questa diffidenza (IPSOS, 2024).
La politica, a sua volta, raramente valorizza queste pratiche nate tra le pieghe del tessuto sociale, e fatica a incorporarle nel processo istituzionale. Questo divario è profondamente scoraggiante e richiederebbe intelligenze capaci di riannodare i fili tra fare e pensare, tra azioni locali e politica nazionale.
Tra il tempo breve dell’azione (“puliamo insieme una spiaggia”) e il tempo lungo del pensiero (“ripensiamo le concessioni demaniali”) dovremmo fare spazio ad un agire-pensante, capace di essere inclusivo delle molte voci senza perdersi in discussioni oziose, in grado di imparare per intelligenza progressiva e cultura dell’errore, trial-and-error come per prima ci ha insegnato la scienza. Un agire-pensante che abbandoni l’illusione consolatoria dei princìpi assoluti per accettare l’onesta imperfezione di ogni concretezza collettiva.
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