Non sono soltanto errori, di Massimo Franco

E’ un inizio dell’anno segnato da giochi pericolosi. E il riferimento non è solo alle vittime di chi maneggia con disinvoltura irresponsabile le armi: dai vicoli della provincia campana dove si spara «per scherzo» uccidendo con proiettili vaganti, ai castelli piemontesi dove un parlamentare di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo, ha portato a una festa una pistola che ha ferito uno dei presenti. La perplessità è più di fondo. Nasce dai messaggi culturali che, volutamente o meno, arrivano dalla nomenklatura di governo all’opinione pubblica.
Sono messaggi che spesso servono da alibi a opposizioni incapaci di offrire valori e principi autenticamente alternativi. Si potrebbe anche liquidare questo sfondo come una somma di spericolati gesti goliardici, classificabili come gaffes. Significherebbe, però, minimizzare fatti che accrediterebbero come «normali» alcuni comportamenti, mentre tali non sono. Meglio dire con chiarezza che in poche settimane l’immagine trasmessa dal governo di destra è passata da un profilo di prudenza e responsabilità, a un ibrido preoccupante. Mescola e intreccia aderenza alla realtà e richiamo di vecchi schemi ideologici, i meno condivisibili. E in qualche caso lascia affiorare perfino una pretesa di impunità che stride con la storia almeno di una sua parte.
Tra proposte poi rientrate, per fortuna, di dare armi ai sedicenni, al no al Meccanismo europeo di stabilità, il Mes, fino a ostentati cenni di indulgenza verso gli evasori fiscali e alla rinnovata solidarietà coi gestori degli stabilimenti balneari, agli attacchi a una parte della magistratura, si delinea una sorta di fronte arretrato del governo. È una specie di trincea ideologica scavata nell’illusione di proteggersi da avversari veri e immaginari. Ma rischia di stravolgere qualunque prospettiva di adesione ai valori e alle prospettive dell’Europa, e di offrire una sensazione di debolezza, non di forza della coalizione guidata da Giorgia Meloni. È come se la maggioranza non riuscisse a esprimere l’interesse nazionale nel senso più unitario e politico del termine, limitandosi a riflettere solo quello di una somma di lobby: micro-interessi di pezzi di società, che non solo confliggono con le esigenze di crescita e evoluzione del Paese, ma risultano inevitabilmente in conflitto tra loro: anche tra le stesse forze della coalizione di destra. Non è chiaro come spinte divergenti così potenti potranno trovare una amalgama di qui alle elezioni europee di giugno. D’istinto, verrebbe da dire che avverrà il contrario: si radicalizzeranno e diventeranno più corrosive, regalando di riflesso spazio agli oppositori più estremisti.
Ma non può bastare la loro avversione pregiudiziale a giustificare l’involuzione che si avverte in questa fase tra i partiti di governo. Non può non colpire l’autocompiacimento per il potere raggiunto che a tratti manifestano esponenti della maggioranza. Sono frequenti le istantanee di una classe dirigente ansiosa di riempire le caselle a sua disposizione, quasi non avesse tempo e voglia di prepararsi a governare non solo a lungo ma bene. Eppure, se non prevalgono istinti suicidi la legislatura non dovrebbe essere a rischio. La situazione e i rapporti di forza sono tali che permetterebbero di programmare il futuro, costruendolo senza l’affanno delle scadenze elettorali.
Una simile impostazione lascerebbe spazio e tempo per portare a compimento un’evoluzione della propria identità senza rimanere ostaggi di quella poco gloriosa del passato, o delle pulsioni deteriori di un sovranismo tanto forte numericamente quanto sterile quando deve diventare cultura di governo e delle alleanze: in Italia come in Europa. Pensare di utilizzare come sponde continentali forze malate del peggiore nazionalismo contro le «prepotenze» di Germania e Francia si rivelerebbe presto un’illusione; ancora più cocente per l’Italia, se il sovranismo populista riuscisse a governare l’Ue. Essere leali nei confronti della Nato, nella difesa dell’Ucraina e a sostegno di Israele potrebbe risultare insufficiente, se a questo non si affianca un europeismo declinato per tutto il 2023 in modo rassicurante. Lo stesso approccio alle riforme istituzionali appare viziato da un eccesso di aspettative e di furbizia; e da un non detto destinato alla fine a emergere in primo luogo tra le forze di destra. Più che una visione complessiva del sistema, il progetto mostra singole riforme in competizione: il premierato di Giorgia Meloni e l’autonomia regionale di Matteo Salvini, con la separazione delle carriere dei magistrati come bandiera dei reduci di Silvio Berlusconi. Ma la sintesi non si vede ancora.
Al massimo, emerge una volontà negoziale, un «do ut des» che dovrebbe elidere le contraddizioni. Non sarà facile comporle, però. E non perché sinistra e Movimento 5 Stelle si mettono di traverso. I loro «no», semmai, sono funzionali a una maggioranza che non esclude di cambiare la Costituzione a colpi di referendum. Anche la dose di improvvisazione che accompagna queste promesse di palingenesi istituzionale potrebbe rivelarsi un «gioco pericoloso». Soprattutto se dietro a parole di rispetto formale della Costituzione qualcuno sognasse una forzatura tesa a piegarne gli equilibri e le garanzie: proprio quelle che hanno permesso alle minoranze politiche del passato di farsi maggioranza e di governare l’Italia.

corriere.it/opinioni/24_gennaio_02/non-sono-soltanto-errori-ec847530-a9a9-11ee-a408-f95cc646ef40.shtml

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