Poiché questo è il momento in cui dovremmo restare in silenzio — e nel silenzio concentrarci sugli alluvionati, gli sfollati, le vittime —, questo è anche il momento in cui esprimersi. La nostra psiche collettiva è intrappolata ormai da anni in cicli di emergenza e disinteresse, sempre più drammatici e sempre più brevi, che alla fine lasciano per lo più le cose come sono. La disponibilità ad ammettere e discutere un problema si apre e si chiude come una valvola a scatto. Così rimangono solo le occasioni peggiori, le meno adeguate in assoluto, quando la commozione è al culmine e sarebbe meglio tacere, per ribadire ciò di cui per il resto del tempo dovremmo parlare.
Nel caso specifico, per ribadire il concetto centrale, il più ambiguo ma anche il più devastante della crisi climatica, nonché quello che continua a sfuggire ai più: crisi climatica significa l’aumento in intensità e in frequenza dei fenomeni estremi. Di un segno e di quello opposto: siccità e alluvioni, ondate di caldo e ondate di gelo. La parola chiave, quella su cui sventatamente non è stato concentrato lo sforzo comunicativo dall’inizio, è proprio «estremo». Siamo già entrati in un’epoca in cui il clima, in ogni sua manifestazione, è più estremo di come lo conoscevamo.
Anche la siccità dei mesi scorsi in pianura padana e le inondazioni delle ultime ore sono tutt’altro che slegate. Il «come» è reperibile nelle spiegazioni dei climatologi interpellati ovunque, che di certo accompagneranno anche questo articolo, ma bisogna cogliere l’attimo, leggerle oggi, perché scompariranno non appena la pioggia sarà cessata e l’acqua si ritirerà. Qui ci è sufficiente dire che chi vede in un fenomeno la negazione dell’altro — nell’eccedenza di piogge la negazione della siccità — si sta fermando allo stadio delle impressioni, del pensiero irragionevole, e rifiuta di accogliere ciò che quegli stessi climatologi ripetono non da ieri e nemmeno dalla scorsa primavera o dall’ultimo decennio: i fenomeni atmosferici estremi sono più estremi e più frequenti, e lo saranno sempre di più. Quella che viviamo è un’escalation ambientale.
Martedì mattina ero in treno. Mentre la situazione meteorologica si aggravava, ho colto uno scambio di battute fra i miei vicini. Uno di loro, il più giovane, si occupava di qualcosa legato alla sostenibilità e ha mostrato al signore che gli sedeva di fronte il telefono con le immagini che arrivavano dall’Emilia-Romagna. L’altro ha commentato in modo lapidario: almeno è piovuto, i fiumi hanno raggiunto il loro livello normale, finalmente ci lasceranno in pace «con la storia della siccità». Il commento non era rivolto a me, quindi l’ho assimilato e lasciato andare, ma ha continuato a tornarmi in mente nelle ore successive. Non per via di un giudizio morale (sono certo che il signore non sarebbe stato altrettanto perentorio poche ore più tardi), ma per l’insofferenza che trasmetteva rispetto al dibattito più ampio intorno alla crisi climatica. Una «storia» con cui ci stanno ammorbando (chi, non è chiaro, non lo è mai), una storia che poi viene puntualmente sconfessata dalla realtà.
Ammetto di essere rimasto anche un po’ sbalordito però. La comunità scientifica è pacificata sui fondamentali dei cambiamenti climatici ormai da decenni, anche i media mainstream sembrerebbero esserlo, ma qualcosa in noi, qualcosa di più profondo, continua a opporre resistenza. In questa rigidità interiore, perfino le emergenze finiscono spesso per volgersi nel contrario della consapevolezza. Le immagini aeree della pianura sommersa, le persone che chiamano aiuto e i video dei salvataggi: rendendoci vicini, ci allontanano anche, permettono di consumare tutto il nostro coinvolgimento nel dispiacere, anestetizzando la ragione. Alla fine, ciò che miriamo a risolvere il più in fretta possibile è sempre il nostro disagio personale.
Solo che non possiamo più permettercelo. È davvero arrivato il momento di un salto di qualità comune, perché la crisi climatica non è più un’eventualità. È un presente in corso, adesso in Emilia-Romagna domani chissà, che richiede forme di adattamento molteplici, economiche, infrastrutturali, sociali — e richiede rinunce, sì —, nessuna delle quali avverrà senza prima un cambio di mentalità diffuso. O forse, più dell’espressione «cambio di mentalità», che non trasmette nulla di nulla, potremmo iniziare a dire: resa. Nessuna delle modifiche sostanziali di cui abbiamo bisogno avverrà nella misura e alla velocità necessarie se una parte di noi non decide di arrendersi. Di lasciar andare per sempre l’idea rassicurante di un ambiente «mite», per ammettere quella nuova di un ambiente «estremo».
L’Italia è un territorio variegato, mosso, struggente. Ed esposto. La vulnerabilità — delle nostre coste, di certe aree montuose, delle isole e ora anche, sorprendentemente per molti di noi, della nostra più grande pianura — è il primo pensiero da ammettere per evitare di trovarci sospesi a mezz’aria, fra certe «storie» a cui non crediamo del tutto e un pianeta che non capiamo più.
Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.