Negoziati, pace, dilemmi, di Federico Oberto Tarena

Tra i più preoccupati per il nuovo avvento di Trump c’erano gli internazionalisti, gli scudieri dell’ordine mondiale liberale (LWO). In effetti, il tycoon è intervenuto a gamba tesa nella questione ucraina, rivoltando la maggior parte delle narrazioni del mondo democratico su quella guerra. La promessa di un disimpegno rapido non si sta dimostrando indolore per la reputazione degli USA nel mondo, ma questo punto si è dimostrato di scarsissimo interesse per la nuova amministrazione. Dall’altra parte c’è Vladimir Putin, che aveva iniziato questa guerra per invertire il corso della storia dimostrando che la forza poteva tornare ad essere uno strumento funzionale alla risoluzione dei disaccordi più estremi, e ora, quando la forza sembra dare i suoi frutti migliori, anche la pace gli si offre come agente trasformativo favorevole.
Nel 2022, il consenso generale si era riunito attorno alle cause di questo conflitto: la guerra era l’unico mezzo rimasto alla Russia per invertire il suo declino storico. Un declino che aveva intaccato l’influenza di Mosca sui suoi vicini più affini (popoli fratelli per i più cauti, connazionali nel gergo imperiale di Putin): la sempre riottosa Ucraina si era stabilizzata sulla scelta occidentale, pur nella più inclusiva e moderata presidenza di Zelensky; la fiammata delle proteste bielorusse nel 2020 indicava infine il declino della decennale popolarità del regime di Lukashenko.
Dall’altra parte, l’Occidente si proponeva – coscientemente o per abitudine irriflessa – la fine della politica di potenza, e la liberazione pacifica di tutti i popoli da ogni sfera d’influenza. In Europa orientale, dove i caratteri della civiltà europea degradavano progressivamente nella ”sfera d’identità” russa e nello spazio eurasiatico, questo intento significava allargare ad est una non-sfera d’influenza, una sfera di libertà – la libertà di aderire alle organizzazioni di sicurezza preferite – e di limitare le rivendicazioni storico-culturali del Cremlino ai confini della Piazza Rossa, forse. Più probabilmente, invece, significava promuovere cambiamenti di regime fino a Mosca. Una preferenza per le sovversioni popolari – altresì dette rivoluzioni colorate – che in qualche modo ribaltava il gioco delle parti della Guerra fredda.
Nel mezzo, il premio in palio al centro del ring, ovvero le ex-Repubbliche sovietiche, allora impegnate in un percorso politico di (ri-)scoperta di sé stesse. Da un lato, il punto di caduta si era trovato, con poche sorprese, nell’avversione verso l’ingombrante patrono storico. Dall’altro, nella riscoperta (spesso strumentale a vantaggi elettorali, una tattica a noi non sconosciuta) di pratiche identitarie otto-novecentesche (con passaggi decisamente oscuri). Identità alla definizione di un corpo nazionale monolitico, alla marginalizzazione degli elementi liberali e all’espulsione degli elementi antinazionali, specialmente se connessi culturalmente all’ex-Grande Fratello (in certi casi, più propriamente ex-occupante).
Oggi, Putin dice di aver dimostrato che l’Occidente è debole (o forse è l’Ucraina a risultargli troppo poco interessante): la nostra war fatigue non è una novità, ma la preferenza data a Trump l’ha elevata a vincolo strategico. È chiaro che l’Ucraina non può continuare senza il sostegno americano (che rappresenta circa il 50% dello sforzo occidentale con predominanza militare), ed è anche chiaro che, anche se aiutata al ritmo attuale, perde nel lungo termine per squilibrio dei fondamentali geopolitici, dalla demografia allo sforzo economico.
È vero che la guerra cambia (in peggio) gli orizzonti delle persone, ma se una connessione rimane con la politica, allora non si possono dimenticare le analisi del 2022. Trump è interessato agli equilibri globali, ma non da egemone ansioso di far valere la propria posizione in ogni teatro locale. E pertanto propone a Putin ciò per cui tutto si è messo in moto: la reintegrazione della Russia sulla scena internazionale da attore rilevante per gli equilibri globali, invece che come ferro vecchio in attesa di definitiva consunzione. Propone un’Ucraina neutrale, con probabile defenestrazione di Zelensky; un’intesa tra i maggiori produttori di energia globali; la ripresa delle collaborazioni tecnologiche interrotte dalle sanzioni. Il tutto ovviamente in ottica anticinese.
Ora, perché Putin dovrebbe fidarsi di Trump? Il rivale numero uno, e quello potenzialmente quello più ideologicamente proattivo, rimane l’America. L’economia di guerra russa, pur strozzata per quanto riguarda l’investimento privato, è comunque alimentata stabilmente dalle commesse belliche e non crollerà a breve (che poi, la storia insegna che qualsiasi surriscaldamento bellico non è paragonabile per problematicità alle crisi di inflazione che arrivano quando al conflitto si decide di porre termine). La tendenza sul campo lo induce a tentare di portarsi a casa l’intera posta, o a pretendere la capitolazione per via diplomatica (o qualcosa di molto simile).
D’altra parte, l’impegno di Trump ad un ritiro immediato sbilancia ancor di più il fattore tempo e mette la Casa Bianca nell’angolo, incapacitata a concludere un accordo che non sia un nuovo Afghanistan senza tradire l’orientamento originale – Bush jr. si candidò da isolazionista, quindi la libertà della geopolitica è pressoché infinita, ma ora sarebbe fantascienza. Qualsiasi altro compromesso deve includere concessioni su altri tavoli, e comunque significa affidarsi all’idea di ordine di Trump, e di fidarsi del ruolo che in esso prevede per la Federazione Russa.
Peraltro, un’intesa a lungo termine – qualcosa di pallidamente rassomigliante ad un nuovo ordine internazionale – deve includere una struttura di legittimità che la tenga in piedi: nel caso in questione, una delimitazione delle rispettive sfere d’influenza, un impegno reciproco a limitare i mezzi legittimi dell’azione geopolitica. Una sezione questa ancora priva di idee, almeno per quanto noto al pubblico, bisognosa di una saggezza e di una moderazione che al momento si fatica ad intravedere. Non basta una proposta indecente a chiudere il conflitto: le future classi dirigenti di entrambe le parti sono convinte di un nemico globale intento a sottometterle nel lungo termine. Se questo problema non viene aggredito, il nuovo (precario) equilibrio potrebbe durare lo spazio di un decennio, deteriorandosi nel frattempo dalle fondamenta in una competizione tra l’odio reciproco e il mutuo interesse perseguito nel sospetto.
Il topping finale, quello più indigesto, è che qualsiasi trasformazione sistemica proposta da Trump, potrebbe comunque scontare in credibilità il rischio di una data di scadenza decisamente troppo vicina: le elezioni americane del 2028A quel punto, più che porsi l’ambizione di imitare una nuova Yalta, somiglierebbe decisamente di più ad un ennesimo Molotov-Ribbentrop.

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