E’ stata una giornata terribile. Dopo esserci svegliati con le sirene aeree sotto una raffica di centinaia di razzi lanciati sulle città israeliane, abbiamo saputo dell’assalto senza precedenti dei militanti palestinesi provenienti da Gaza alle città israeliane confinanti con la Striscia.
La notizie parlano di almeno 700 israeliani uccisi e di centinaia di feriti, oltre ai molti rapiti e portati a Gaza. Nel frattempo, l’esercito israeliano ha già iniziato la propria offensiva sulla striscia sotto assedio, con la mobilitazione delle truppe lungo la recinzione e attacchi aerei che finora hanno ucciso e ferito centinaia di palestinesi. Il terrore delle persone che vedono militanti armati nelle loro strade e nelle loro case, o la vista di aerei da combattimento e carri armati in avvicinamento, è inimmaginabile. Gli attacchi contro i civili sono crimini di guerra e il mio cuore va alle vittime e alle loro famiglie.
Contrariamente a quanto dicono molti israeliani, e sebbene l’esercito sia stato chiaramente colto completamente alla sprovvista da questa invasione, non si tratta di un attacco «unilaterale» o «non provocato». La paura che gli israeliani provano in questo momento, me compreso, è solo una parte di ciò che i palestinesi provano quotidianamente sotto il regime militare decennale in Cisgiordania e sotto l’assedio e i ripetuti assalti a Gaza. Le risposte che sentiamo oggi da molti israeliani – di persone che chiedono di «radere al suolo Gaza», dal momento che «questi sono selvaggi, non persone con cui si può negoziare», «stanno assassinando intere famiglie», «non c’è margine di parola con queste persone» – sono esattamente quelle che ho sentito dire innumerevoli volte dai palestinesi occupati riguardo agli israeliani.
L’attentato di questa mattina ha anche contesti più recenti. Uno di questi è l’orizzonte incombente di un accordo di normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele. Per anni, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha sostenuto che la pace può essere raggiunta senza parlare con i palestinesi o fare alcuna concessione. Gli Accordi di Abramo hanno privato i palestinesi di una delle loro ultime carte di scambio e basi di sostegno: la solidarietà dei governi arabi, nonostante tale solidarietà sia stata a lungo discutibile. L’elevata probabilità di perdere forse il più importante degli stati arabi potrebbe aver contribuito a spingere Hamas al limite.
Nel frattempo, i commentatori avvertono da settimane che le recenti escalation nella Cisgiordania occupata stanno conducendo a percorsi pericolosi. Nell’ultimo anno sono stati uccisi più palestinesi e israeliani che in qualsiasi altro anno dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000. L’esercito israeliano effettua regolarmente raid nelle città palestinesi e nei campi profughi. Il governo di estrema destra sta dando ai coloni mano libera per creare nuovi avamposti illegali e lanciare pogrom su città e villaggi palestinesi, con i soldati che accompagnano i coloni e uccidono o mutilano i palestinesi che cercano di difendere le loro case. Nel mezzo delle festività, gli estremisti ebrei stanno sfidando lo status quo attorno al Monte del Tempio/Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, sostenuti da politici che condividono la loro ideologia.
A Gaza, nel frattempo, l’assedio in corso continua a distruggere la vita di oltre due milioni di palestinesi, molti dei quali vivono in condizioni di estrema povertà, con scarso accesso all’acqua pulita e circa quattro ore di elettricità al giorno. Questo assedio non ha una fine programmata; anche un rapporto del Controllore dello Stato israeliano ha rilevato che il governo non ha mai discusso soluzioni a lungo termine per porre fine al blocco, né ha preso seriamente in considerazione alcuna alternativa ai ricorrenti cicli di guerra e morte. È letteralmente l’unica opzione che questo governo, e i suoi predecessori, hanno sul tavolo
Le uniche risposte che i successivi governi israeliani hanno offerto al problema degli attacchi palestinesi da Gaza sono stati dei tamponi: se verranno dalla terra, costruiremo un muro; se passano attraverso i tunnel, costruiremo una barriera sotterranea; se lanciano razzi, installeremo degli intercettori; se stanno uccidendo alcuni dei nostri, ne uccideremo molti di più. E così avanti all’infinito.
Tutto ciò non serve a giustificare l’uccisione di civili: è assolutamente sbagliato. Ma serve a ricordarci che c’è una ragione per tutto ciò che sta accadendo oggi e che – come in tutti i casi precedenti – non esiste una soluzione militare al problema di Israele con Gaza, né alla resistenza che emerge naturalmente come risposta alla violenza dell’apartheid.
Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di israeliani hanno marciato per «la democrazia e l’uguaglianza» in tutto il paese, e molti hanno addirittura affermato che avrebbero rifiutato il servizio militare a causa delle tendenze autoritarie di questo governo. Ciò che questi manifestanti e soldati di riserva devono capire – soprattutto oggi, mentre molti di loro hanno annunciato che interromperanno le loro proteste e si uniranno alla guerra con Gaza – è che i palestinesi lottano per quelle stesse richieste e anche di più da decenni, affrontando un Israele che nei loro confronti è già, ed è sempre stato, del tutto autoritario.
Mentre scrivo queste parole, sono seduto a casa a Tel Aviv, cercando di capire come proteggere la mia famiglia in una casa senza riparo o stanza sicura, seguendo con crescente panico le notizie e le voci di eventi orribili che hanno avuto luogo nel territorio israeliano. Le città vicino a Gaza che sono sotto attacco. Vedo persone, alcune delle quali miei amici, che chiedono sui social media di attaccare Gaza più ferocemente che mai. Alcuni israeliani dicono che ora è il momento di sradicare completamente Gaza, invocando essenzialmente un genocidio. Nonostante tutte le esplosioni, il terrore e lo spargimento di sangue, parlare di soluzioni pacifiche sembra loro una follia.
Eppure ricordo che tutto ciò che sento adesso, che ogni israeliano deve condividere, è stata l’esperienza di vita di milioni di palestinesi per troppo tempo. L’unica soluzione è quella di sempre: porre fine all’apartheid, all’occupazione e all’assedio e lavorare per un futuro basato sulla giustizia e sull’uguaglianza per tutti noi. Non è nonostante l’orrore che dobbiamo cambiare rotta, è proprio per questo.
*Haggai Matar è un giornalista vincitore di diversi premi e attivista israeliano, è il direttore esecutivo di +972 Magazine, dal quale è tratto questo articolo. La traduzione è a cura della redazione.
Fonte: Jacobin Italia, 9 ottobre 2023