Identificato da molti con il mondo libero e democratico, il cosiddetto Occidente (occidente di cosa? Dove comincia? Dove finisce?) sembra sull’orlo di una crisi di nervi. Biden resiste nonostante lui stesso si veda come un pugile suonato, Trump va avanti nonostante i suoi lo sappiano che è un mentitore seriale, Macron si gioca Parigi senza neanche una Messa di addio, i leader dell’Europa che resta si arroccano su sé stessi, Giorgia – detta Meloni – non sa se rappresentare l’Italia o il suo blocco “conservatore”. Ha ragione il direttore de La Stampa, è una crisi di nervi dovuta all’ego dei leader? Io non penso.
Si suol dire che gli elettori hanno sempre ragione. Sarà vero, ma bisogna capire cosa li guidi. E a me sembra che li guidi il peggiore dei nocchieri, per il quale non ci può essere comprensione: questo nocchiero è la paura. Ma paura di cosa? Ciò che emerge come costante che lega tutti i casi diversi di cui stiamo parlando è la paura dell’invasione.
Il Global South sta invadendo il Global North (cioè il nostro mondo) e questo fa paura. È, o sarebbe, un esercito di oltre cento milioni di profughi in fuga da un mondo allo sfascio. Questo terrore di finire travolti da un mondo che viene a saziarsi qui da noi porta a chiudere porte e finestre, quando c’è l’uragano si deve fare così, anche mettendo travi e materassi davanti alle porte di casa.
Ma perché accada tutto questo non è argomento che interessi. Gli errori assoluti dei francesi nel Sahel lo hanno regalato ai russi e ai jihadisti, gli errori madornali degli americani nel Cono Sud hanno fatto altrettanto, la mancanza di empatia dell’Europa ha affogato nelle tirannidi “amiche” il Mediterraneo. Tutto questo sarà anche vero, ma non c’è tempo per starlo ad analizzare, guida la paura. Gli elettori hanno sempre ragione?
La tecno-finanza ha sostituito gli Stati, l’Intelligenza Artificiale (come molto altro) è in mano ai privati, non c’è verso per la mano pubblica per recuperare un ruolo, le grandi Corporation sono più grandi degli Stati che le vorrebbero regolare.
Pensare di invertire la tendenza andando a firmare accordi con “i sindaci libici”, come fece il governo italiano, fa sorridere. Negoziare con Assad è un’illusione da neonati, affidarsi ad al-Sisi equivale a spararsi in un piede per sperare di riuscire a fuggire correndo.
La democrazia affidata al nocchiero-paura dove ci porterà? Neanche Fanpage può fare un’inchiesta su questo.
Occorre guardarsi intorno, e allora si vede che c’è una sola opzione che non fa paura alla quale aggrapparsi, è la bianca talare di Francesco. È rimasta solo Chiesa? Quella di Francesco, non quella che piace a chi cerca con interviste inspiegabili di rivitalizzare quell’altra. Parlare di “terrore scisma” per il caso Viganò è ridicolo: chi lo segue? Chi se ne cura? Ma che Chiesa sarebbe la Chiesa di Francesco? È la Chiesa sinodale.
In ognuno dei punti che abbiamo toccato c’è una teopolitica che sostiene il collasso: perché la teopolitica si regge sulla paura, e l’aggressività che ne consegue. Teopolitica è termine poco usato, indica una visione convinta che la politica, il governo, riguardi Dio. Un po’ accade a Tehran.
Ecco l’assalto al detestabile Iraq di Saddam, per crearne uno peggiore, ecco la “guerra al terrorismo”, per crearne uno ancora peggiore, e così via. Ecco le guerre culturali (tipo l’assalto alle cliniche abortiste): “Dio lo vuole”. La teopolitica da una parte ha fatto sparire l’islamico per far emergere l’islamista, poi ha fatto sparire il cristiano per far emergere il cristianista. E siamo qui: il nocchiero dell’oggi è la paura, che diventa aggressività.
La Chiesa universale e sinodale è l’altra faccia di questa medaglia. Come funziona? Basta immaginarsi il sinodo che ci sarà per riuscire a capirlo: ci sono tanti tavoli dove discutono un italiano, un tedesco, un brasiliano, un arabo, un lituano. In un altro ci sono un francese, un argentino, un sudafricano, un mongolo. Ci si può far governare dalla paura? O piuttosto non torna viva l’utopia? In occasione del Cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo ( strumento consultivo dell’onnipotente successore di Pietro, limitato ai vescovi, tenute passo di allora verso una Chiesa sinodale) papa Francesco concluse cosi il suo discorso: “ Una Chiesa sinodale è come vessillo innalzato tra le nazioni in un mondo che – pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica – consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle mani avide di ristretti gruppi di potere. Come Chiesa che “cammina insieme” agli uomini, partecipe dei travagli della storia, coltiviamo il sogno che la riscoperta della dignità inviolabile dei popoli e della funzione di servizio dell’autorità potranno aiutare anche la società civile a edificarsi nella giustizia e nella fraternità, generando un mondo più bello e più degno dell’uomo per le generazioni che verranno dopo di noi”. Dunque la Chiesa sinodale è la conversione del papato.
Ecco perché, senza essere cattolico, dico che c’è rimasta solo la Chiesa, sinodale, di Francesco. In quel giorno ormai abbastanza lontano, il suo pontificato era cominciato da poco, Bergoglio aveva visto ciò che oggi ancora non capiamo: la necessità di sottrarre il timone alla paura, al paradigma tecnocratico, alla tecnofinanza, e tornare a livello locale, nazionale, continentale e globale al progetto faticoso del vivere insieme.
Dare la colpa ai leader è facile, il problema è la paura che ci attanaglia e risveglia vecchi incubi, antiche e primitive pulsioni. Siamo a un romanticismo alla Schiller, che davanti a Medea, che di certo aveva subito un torto dal padre, si riscatta facendolo cuocere con la scusa di ringiovanirlo. È l’eroismo dell’azione, seppur disdicevole, che ci fa uomini e non caporali, per Schiller. Altrimenti cosa ci resterebbe? Seguire una vita ordinaria come animali comuni. No, diceva il romantico Shiller! E cosa diciamo noi oggi davanti a progetti pur disdicevoli, per non piegarci a un destino inaccettabile?
La via sinodale non riversa sul papa ogni decisione, ogni responsabilità, come facciamo noi oggi coi leader (si tratti di Trump, di Biden, di Giorgia o di Macron). Costruisce la scelta di capirsi dal basso, dai territori, con l’ascolto. Non c’è un’altra via per tornare ad agire non in base alle paure, ma insieme.
Nessuno ci invade, ma dobbiamo capire cosa accade di là dal muro e di là dal muro si deve pensare a come agire per cambiare a partire da sé prima che dall’Occidente. Forse l’amore per Putin scemerebbe, o no?
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