«I clown sono i pali di sostegno che reggono il tendone del circo», diceva P.T. Barnum (1810-1891), leggendario impresario circense e inventore del moderno showbusiness, e nessuno meglio di Donald Trump al giorno d’oggi ricorda questa lezione. Perché si possono ingaggiare gli acrobati più bravi, esibire i leoni dal ruggito più terrificante, ma neanche i fenomeni da baraccone più strani potrebbero sorreggere il perituro interesse del pubblico senza la presenza decisiva dei pagliacci. La caciara è dunque il collante del metodo trumpiano: gli ha fatto vincere due volte la Casa Bianca e scalare il partito repubblicano che, indossato il celebre berrettino rosso «Make America Great Again» e riposti in cantina i nobili ritratti di Lincoln, Eisenhower e Reagan, in Campidoglio approva speditamente ogni sua nomina — anche la più irrituale — senza fiatare (se il partito che un tempo fu del tonitruante Teddy Roosevelt si è trasformato nel maggiordomo di Batman, i democratici mettono in scena quotidianamente il remake di Weekend con il morto).
La puntata dell’altra notte del serial tv sulla presidenza Trump tornato in onda un mese fa dopo la cancellazione voluta dagli elettori americani nel 2020 è stata, finora, una delle più movimentate: chi ragiona ancora con gli strumenti del secolo scorso forse immaginava una qualche correzione di rotta dopo il varo dell’inedita alleanza Washington-Mosca celebrata a Riad (senza rappresentanti dell’Ucraina: «Yalta, ma con Hitler seduto al tavolo» ha chiosato l’ex ambasciatore americano Michael McFaul). La realtà dello show trumpiano segue invece i suoi ferrei comandamenti strategici, che gli insegnò il mentore della sua gioventù, l’avvocato maccartista Roy Cohn (sul rapporto tra i due c’è un film candidato agli imminenti Oscar, The Apprentice): «La vita non è lo sport: segui sempre l’uomo, non la palla», e «se ti attaccano con un coltello tu rispondi con il bazooka».
E così, dopo le dichiarazioni piuttosto fortine sull’Ucraina («Zelensky nel suo Paese è al 4%») e la risposta tutto sommato pacata del presidente ucraino, ecco ieri la controrisposta con il bazooka retorico, classico metodo Cohn: Zelensky è un dittatore, la guerra l’ha cominciata lui, ha preso 350 miliardi di dollari da Biden ma senza Trump il Paese verrà annientato (risposta arrivata peraltro su X, medium di proprietà dell’uomo più ricco del mondo che dopo aver supportato la campagna di Trump con oltre un quarto di miliardo di dollari sta smantellando la pubblica amministrazione in nome di una spending review che passa sopra la testa del parlamento: in altri tempi ci sarebbero stati seri problemi di conflitto d’interesse ma ormai è un concetto superato, non fa audience).
La Bbc ha tentato il fact-checking (i media americani si sono da tempo arresi): «Non è chiaro quale fonte il presidente stesse citando, dato che non ha fornito prove (ndr: sulla provenienza del 4% citato da Trump, i sondaggi danno in realtà Zelensky al 57%). Abbiamo chiesto alla Casa Bianca di chiarire questo aspetto». In attesa (vagamente beckettiana) di una risposta dalla Casa Bianca che nel frattempo ha purgato dai briefing nello studio ovale l’Ap — rea di non essersi uniformata alla dicitura «Golfo d’America» con la quale Trump ha rottamato «Golfo del Messico» — vale la pena ricordare un altro dei comandamenti di Roy Cohn, citato in una scena particolarmente inquietante del film The Apprentice. La verità non esiste, spiega il giovane The Donald che ormai ha imparato la lezione e si appresta a rottamare il maestro ormai vecchio e malato: «Ognuno ha la sua».
Ecco perché il primo atto ufficiale della sua prima presidenza, 20 gennaio 2017, prima puntata dello show, fu quello di far spiegare dal suo portavoce che c’era una folla oceanica a salutarlo, molto più di Obama. Non era vero, ma non importa. Bastava fare caciara.
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