Ci sono due scuole di pensiero. La prima: non fare figli, di questi tempi, è un atto di responsabilità. La seconda: i figli si sono sempre fatti, il mondo oggi non è peggio di ieri. Rispetto la prima opinione, ma sottoscrivo la seconda. Il dato sulle nascite in Italia nel 2022 — 392.598, minimo storico — ha colpito molti. Soprattutto chi s’è ricordato di controllare il numero dei decessi nello stesso periodo: 713.499. In molti hanno commentato l’evidente tracollo demografico: sociologi e storici, psicologi e politici, economisti ed editorialisti. Ci si è messo anche Elon Musk, con la consueta delicatezza («L’Italia scomparirà»). Gli interessati — i potenziali genitori — cosa dicono? Quello che abbiamo riassunto all’inizio. C’è chi pensa che il Pianeta — flagellato da catastrofi climatiche e violenze, pandemie e diseguaglianze — sia ormai un ambiente ostile: perché portarci un bambino? Poi, certo, c’è chi non vuole figli per altri motivi: perché non se li può permettere, perché non si vede come genitore, perché non ha trovato la persona giusta, perché sta bene come sta. Tutte scelte legittime, antiche come l’umanità. La «rinuncia altruistica» alla maternità e alla paternità, invece, è nuova. Impossibile dire quanto sia diffusa. Di certo, in Italia, se ne parla. Lo abbiamo notato anche nel podcast domenicale del Corriere, RadioItalians: da quando è stato introdotto il tema, i messaggi vocali si moltiplicano.
L’idea, espressa con convinzione, è più o meno questa: «Mettere al mondo un figlio, oggi, è da irresponsabili. Rinunciare a diventare genitori non è una prova di egoismo, come si sente e si legge. È, invece, un gesto generoso, un modo di impedire che nuovi essere umani debbano subire le conseguenze dei disastri che abbiamo creato, e di quelli che ci aspettano».
Opinione rispettabile, ma non condivisibile. L’umanità esiste e resiste perché le donne e gli uomini non hanno mai rinunciato a riprodursi. Rispondendo all’istinto, all’amore, alla speranza, alla fede, al caso, a una combinazione di queste cose. Sapendo che molti neonati sarebbero morti; che epidemie, carestie e malattie avrebbero minacciato i sopravvissuti; che i maschi sarebbero andati in guerra; che le femmine avrebbero subito soprusi. Nonostante tutto questo, si facevano figli.
Oggi la situazione è peggiorata? Al contrario: è molto migliore. Due dati fra tanti: l’aspettativa di vita nel mondo è raddoppiata negli ultimi due secoli, dopo essere rimasta stabile per millenni. Il reddito pro-capite, nello stesso periodo, è aumentato di quattordici volte. Sappiamo che non tutto va bene, anzi: che molto va male. In Europa — angolo privilegiato del pianeta, come i migranti sanno e noi spesso dimentichiamo — negli ultimi tre anni abbiamo conosciuto pandemia, guerra, catastrofi naturali, sofferenze, crimini e abusi sulle donne. Ma non stiamo peggio di ieri: stiamo meglio.
E anche quando si stava peggio, ripetiamolo, i figli si facevano. I bambini nascono, oggi, in parti del mondo dove la vita è molto più dura che in Italia, da ogni punto di vista: sanitario, alimentare, economico, climatico, sociale, politico. Pensate a certe parti dell’Africa, alla Siria, all’Iran, all’Afghanistan, al Venezuela. I figli sono una speranza e, soprattutto nelle società agricole, una ricchezza.
Mio nonno paterno — porto il suo nome — era un agricoltore e ripeteva, in dialetto cremasco: «Bagài e teré ì è mai asé. La cà, dóma quela ‘ndu sa stà (Bambini e terreni non sono mai abbastanza. La casa, solo quella dove si sta). Il suo settimo figlio, mio padre, è nato nel gennaio 1917: in piena prima guerra mondiale, l’Italia flagellata dall’influenza spagnola. In cascina le stanze non erano riscaldate, la latrina era in cortile, le arance comparivano nelle feste comandate ed era impensabile avanzare cibo nel piatto. Milioni di famiglie così, però, hanno fatto figli, e quei figli hanno rimesso in piedi l’Italia.
Ora tocca ai loro nipoti e pronipoti. Non si facciano spaventare, i nuovi italiani: sono più forti di quanto pensano, e i loro figli saranno ancora più forti di loro.
https://www.corriere.it/opinioni/23_giugno_02/italia-nascite-fare-figli-tempi-difficili-ae4528d2-016b-11ee-9a47-43166fb70f00.shtml?refresh_ce
Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.