È venuto il momento che la Cina “partecipi attivamente alla gestione globale”; dato il suo crescente ruolo, “garantirà stabilità ed energia positiva alla pace nel mondo”. È la nuova versione pacifista di Xi Jinping che l’inaspettata ripresa delle relazioni diplomatiche fra sauditi e iraniani, patrocinata da lui, e poi i 12 punti per risolvere la guerra in Ucraina, dovrebbero provare.
Quest’ultima, che forse non era neanche un’iniziativa di pace, sembra uscita di scena: Volodymyr Zelensky ancora aspetta una telefonata da Xi. Le relazioni diplomatiche nel Golfo sono invece una realtà. È tuttavia probabile che a India, Vietnam, Taiwan, Australia, non sfugga il contrasto fra il comportamento aggressivo e militarista nell’Indo-Pacifico, e l’impegno per la pace in altri contesti geopolitici, a 6.500 chilometri da Pechino.
È comunque una buona notizia che due importanti paesi concorrenti in un’altra realtà geopolitica, dal Golfo al Libano, dalla Siria allo Yemen, decidano di riaprire le ambasciate e di parlarsi. È un successo della diplomazia cinese, aiutata dai legami economici più che politici, con Iran e Arabia Saudita. Pechino è il principale acquirente del petrolio del Golfo: vent’anni fa ne comprava il 3%, oggi il 30%, soprattutto dai due paesi.
Ma si tratta solo della ripresa di relazioni diplomatiche sulla quale Iran e sauditi trattavano già da qualche anno. La buona notizia non risolve decenni di violento confronto settario fra sciiti e sunniti: il millenario contenzioso religioso dello scisma islamico che continua a definire l’odierno confronto geopolitico. L’appoggio saudita a Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran sciita; e, in questi anni, la lotta per il controllo di Libano, Yemen, Siria, Iraq, lungo il Crescente Fertile che è la linea di faglia fra popoli sunniti e sciiti.
Quella che hanno firmato i due paesi è la pace fredda di un conflitto perennemente caldo, alimentato dalle loro differenze religiose. E’ difficile che i sauditi cambino opinione sul programma nucleare iraniano: insieme ai soli israeliani, erano ostili all’accordo sul suo congelamento che la comunità internazionale aveva raggiunto con Teheran. Per essere mediatrice di tutto ciò che divide i sauditi dagli iraniani, a Pechino non basta il peso della presenza economica: servirebbe un impegno politico ed eventualmente militare che la Cina non ha i mezzi né l’intenzione di esercitare. Il ricordo dei disastri americani è nitido.
Il successo della diplomazia cinese è in apparenza una sconfitta per quella americana, colta di sorpresa. “E’ necessario lavorare con l’Iran per costruire modelli per prosperità e stabilità”, diceva il principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri saudita, firmando l’accordo con l’Iran. Non è molto diverso da ciò che Barack Obama aveva consigliato nel 2016: prima o poi l’Arabia Saudita avrebbe dovuto trovare “un modo efficace per condividere il loro vicinato e istituire una forma di pace fredda”. E rendere meno costoso l’impegno militare americano nel Golfo.
Gli Stati Uniti non stanno abbandonando il Medio Oriente per dedicare attenzione e risorse all’Indo-Pacifico. E’ una riorganizzazione per calibrare meglio le priorità. La guerra in Iraq e le Primavere arabe hanno insegnato un uso più cauto e mirato dell’uso della forza. Ma il Golfo continua ad essere presidiato dalle basi americane.
Non sono invece giorni fortunati per Bibi Netanyahu. Il premier israeliano voleva creare un fronte con i paesi sunniti contro l’espansionismo sciita, distogliendo l’attenzione dalle proteste interne contro il suo governo nazional-religioso. E’ difficile che a Riyadh interessi dopo aver ristabilito relazioni diplomatiche con il primo nemico dello stato ebraico. Né che in qualche modo sostenga un eventuale attacco israeliano ai siti nucleari iraniani.
C’è un’altra ragione che impedirebbe a Netanyahu di usare una guerra all’Iran per risolvere i suoi problemi interni: non ha piloti, tecnici, soldati sufficienti per combatterla. Stanno scioperando contro di lui. Il 69° squadrone dell’aviazione è la principale forza strategica per gli attacchi a lungo raggio, pilastro della sicurezza d’Israele: oggi non avrebbe abbastanza top guns disposti a combattere per Netanyahu.
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