È difficile parlare di finanziamento alla politica in un Paese in cui la partecipazione alla vita democratica è ai minimi storici e in cui la credibilità della classe dirigente, eccezion fatta per la Presidenza della Repubblica, è soggetta al vento impetuoso e incontrollato del mutevole spirito del tempo. È difficile, eppure è necessario. L’ultimo scandalo relativo alla Regione Liguria, con le ipotesi di corruzione e l’ennesimo cortocircuito tra pubblica amministrazione e imprese, rischia di generare un duplice effetto: aumentare il senso di sfiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini e insieme alimentare ulteriori chiusure da parte di chi gestisce il potere.
Della disaffezione verso il mondo politico si è detto e scritto molto ed è probabile che il prossimo test elettorale, quello delle Europee, sarà l’ennesima cartina di tornasole, con livelli di astensionismo mai visti prima, non solo in Italia. Se si guarda poi, nello specifico, al rapporto tra attività politica dei partiti e sostegno economico da parte degli elettori, è stato in questi anni l’esperimento del due per mille di imposte per le forze politiche a dare una risposta chiara: soltanto il 4% degli italiani è disposto a destinare una percentuale delle tasse pagate alle formazioni elettorali. Meno di due milioni di persone, nonostante sia un’operazione a costo zero per il contribuente (perché se non destinata, quella quota rimane comunque allo Stato). Un valore non lontano a quello che si otterrebbe sommando iscritti, simpatizzanti e sostenitori dei vari soggetti in campo. Siamo in presenza di un circolo chiuso e, purtroppo, autoreferenziale.
Se tutto questo non sorprende, però, fa più discutere invece la chiusura a riccio dei nostri rappresentanti sulla necessità di intervenire e riformare il sistema di finanziamento della politica, che mostra crepe e inadeguatezze. Il problema, di fronte alle inchieste giudiziarie che chiamano in causa esponenti di primo piano del mondo politico, a destra come a sinistra, non è soltanto essere “garantisti” o “giustizialisti” a corrente alternata, secondo gli interessi del momento. Il problema è la creazione di sistemi di potere a livello territoriale, che non può più essere tollerata senza la definizione di regole chiare. Quali? Primo: regolamentare sin da subito possibili conflitti di interesse tra chi effettua donazioni e chi le riceve. Secondo: promuovere codici di autoregolamentazione nella raccolta fondi da parte di candidati e partiti. Terzo: tracciare e rendicontare le voci legate al sostegno dell’attività politica. Si tratta di norme semplici che consentirebbero di uscire dall’attività di lobby oscura e non dichiarata esercitata da imprenditori e portatori di interesse. L’idea che la politica sia una cosa sporca, fatta di trucchi contabili e sotterfugi, è all’origine stessa della disaffezione odierna e va cancellata il più presto possibile, al pari del fatto che la politica possa essere cosa solo per ricchi o per chi se la può permettere.
L’alternativa è un sistema finalmente trasparente che non si fa usare da chi ha i soldi, ma usa i soldi dichiarando da dove vengono per il bene della comunità. Se dovessimo spostare l’attenzione dall’attività dei partiti ai progetti dei governi, il discorso non cambierebbe di molto. La sfida lanciata all’esecutivo per un Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza, aperto alle osservazioni e alle segnalazioni della società civile è un test interessante di democrazia e il fatto che, dopo alcuni mesi, siano arrivate le prime risposte fa finalmente ben sperare.
È troppo grande il rischio che su questo tema, o ad esempio sulla costruzione di importanti grandi opere, il nodo delle risorse e degli interessi ad esse legati venga trascurato. Nessuno può pensare di avere mani libere quando gestisce fondi pubblici: il senso di impunità di cui si è parlato in questi giorni è il primo virus da cui i palazzi della politica dovrebbero tenersi lontani.
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