Vaso di coccio tra vasi di ferro, la nostra Europa affronterà nei prossimi mesi uno dei periodi più delicati della sua vicenda comunitaria. In una situazione che, in fondo, somiglia un po’ a quella della Lega Italica, incapace coi suoi staterelli di opporsi agli appetiti dei potenti sovrani stranieri del tempo, già proiettati nella modernità quattrocentesca dello Stato assoluto. Spesso la storia è spietatamente darwiniana e bisogna lavorare per non essere i prossimi a soccombere nella selezione naturale.
Stretta fra la tecnocrazia autocratica salita al potere in America e le dittature imperialiste dell’Asse del caos, l’Unione europea rischia di pagare pegno alla propria incompiutezza, non più compatibile coi modi voraci di questo tempo disordinato. Certo, ci unisce agli Stati Uniti la fedeltà atlantista, ma non è ben chiaro quali ne saranno i confini nella nuova interpretazione di Donald Trump, di sicuro più restrittiva e costosa di quella adottata dall’amministrazione Biden. Certo, il blocco antioccidentale saldatosi negli anni attorno a Russia e Cina mostra crepe, a cominciare dal mutato scenario siriano che ha privato Mosca della sua base d’appoggio mediorientale e l’Iran del suo corridoio sciita fino al Libano degli Hezbollah. E tuttavia non v’è dubbio che le nostre lentezze nell’adeguare la casa comune alle nuove urgenze geopolitiche (i nostri troppi «particolarismi») costituiscono un punto di fragilità con cui fare i conti, come ha ricordato su queste colonne Lucrezia Reichlin.
C’è uno iato molto vistoso fra l’impeto declaratorio dei vertici dell’Unione e la loro capacità di azione concreta. La nostra politica verso l’Ucraina ne è l’esempio più evidente («con Kiev fino alla vittoria», proclamava ancora Ursula von der Leyen mentre membri della Ue vicini a Putin come l’Ungheria di Orbán o la Slovacchia di Fico remavano in senso opposto): e non è certo questo l’unico caso. Siamo di continuo condannati alla vaghezza in politica estera — e in altre materie essenziali all’esistenza di qualsiasi forma effettiva di statualità, come difesa e fiscalità — dal principio di unanimità che ci trasciniamo dietro da decenni ed equivale a un diritto di veto in capo a ciascuno dei 27 Stati della Ue, per piccolo che sia. Ci spelliamo le mani plaudendo al rapporto Draghi che richiede debito comune per comune sviluppo nell’innovazione e nella sicurezza ma continuiamo a cincischiare sul tema, senza così riuscire a chiudere la ferita aperta nelle coscienze dei cittadini europei dalla crisi che tra il 2009 e il 2012 travolse la Grecia e impattò pesantemente sul destino politico di Paesi dal bilancio fragile, Italia in primis. Siamo zavorrati dal senso complessivo del Trattato di Lisbona, che nel 2007 riempì il vuoto lasciato dalla Costituzione europea bocciata due anni prima e che, tuttavia, ha tracciato per l’Europa contorni da organizzazione intergovernativa intenta a regolamentare le dimensioni di mele e zucchine e non da federazione capace di progettare e proteggere l’avvenire degli europei di domani.
Ciò nonostante, c’è chi ci fa credito. Martin Wolf, stilando sul Financial Times il lungo elenco di enormi sfide che ci attendono (aggravate dal disordine politico della Germania e della Francia) non manca di enumerare i grandi «successi storici» della Ue, ricordando la sua capacità di crescere, passo dopo passo, crisi dopo crisi. Nel suo bel saggio Patrie, Timothy Garton Ash osserva che l’Europa, pur con tutti i suoi passi falsi, è oggi di gran lunga migliore di quella di mezzo secolo fa, per non parlare del mattatoio ch’era stata nei decenni precedenti. Perché non dovrebbe continuare a progredire? Immaginare una silver line al di là delle nubi è solo sciocco ottimismo?
L’Europa è oggi, nonostante i suoi gravi difetti o forse proprio grazie ad essi, l’ultimo spazio ancora aperto alla politica, intesa come discussione complessa volta alla composizione di interessi contrapposti. In America il linguaggio politico è stato destrutturato fino all’annullamento dalla campagna di bufale pop di Trump e dall’invadenza situazionista di Elon Musk, una specie di Joker 4.0 emerso dal brodo postdemocratico dei tycoon della West Coast. Nella Russia dei gulag polari per dissidenti o nella Cina dei campi di internamento di Xinjang un linguaggio politico come noi lo intendiamo è semplicemente escluso alla radice.
Insomma, resta intatta la nostra vera cifra di seduzione. Quella che vent’anni fa fece preconizzare (con parecchio ottimismo) a Jeremy Rifkin la prevalenza di un «sogno europeo». Certo, il soft power europeo, da unica potenza «vegetariana», non basta più da solo. Ma tagliare la burocrazia per decidere prima e meglio significa politicizzare e dunque «federalizzare» almeno alcuni settori strategici, magari con forme di cooperazione rafforzata e strappi necessari nella tela dell’unanimismo: questo passaggio per essere compiuto va metabolizzato almeno dalla destra più razionale, incarnata in Europa dalla premier italiana Meloni. La coscienza delle proprie fragilità e i timori che ne conseguono possono essere in definitiva stimoli preziosi. Così è accaduto davanti alla pandemia, col grande sforzo comune che ci ha salvato. Ora non è il caso di attendere impreparati un’emergenza che potrebbe precipitare sui nostri mercati o alle nostre frontiere.
Ciò che non ha potuto la visione dei padri fondatori potrà la paura dei tiranni alle porte? Sperarlo non è solo lecito, è doveroso. Poiché la speranza non è stolido ottimismo: è, come disse Vaclav Havel uscendo da un carcere della Cecoslovacchia comunista, la capacità di lavorare per qualcosa «perché è buono».
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