L’esistenza non è divina? L’inesistente docent.
Sembra un controsenso, ma è ciò che la società ritiene inesistente che porta alla fede ed è proprio l’esistente che l’umanità stessa eleva a sacro.
Cambiano le declinazioni, ma non le elevazioni.
Tuttavia il non credente ha tutto il diritto di non sentirsi figlio di Dio.
Al pari il credente ha tutto il diritto di sentire il non credente come suo fratello di sangue perché figlio di Dio.
È un po’ la storia eterna di Caino e Abele (Bibbia, Genesi): stando agli spunti di vocabolario, il nome del primo deriva dal verbo qanah (che significa “acquistare” un figlio), mentre il nome del secondo vuol dire “vapore, nulla” (come destinato a morire).
Ma la fratellanza salva. Anche davanti alla morte. È un atto di coraggio.
È una relazione sacra questa?
L’etimologia della parola sacro ci ricorda come la stessa stia ad indicarci la via della “cosa avvinta dalla divinità”.
Quante volte si sente dire “io non credo se non vedo”. Un po’ questa frase ci riporta indietro nel tempo: all’esperienza di San Tommaso.
Perché non credi se non vedi? E cosa manca all’umanità per avere fede in un Dio che per mezzo dell’universo si è manifestato in tutta la sua potenza?
“L’esistente nell’inesistente”.
Non è questa una sintesi di come l’umanità sia un luogo sacro poiché connubio indissolubile che lega i due elementi in versione opposta rispetto all’affermazione di San Tommaso?
D’altronde quest’ultimo è diventato santo proprio perché è riuscito a superare il contrasto tra realtà e verità: dove il primo dei due concetti appartiene al guardare, il secondo al vedere.
E il vedere appartiene al cieco; alla capacità dell’umanità di permeare dentro sé stessa e allenare tutti gli angoli del cuore e dello spirito per orientarsi nel buio (proprio come si farebbe nell’universo).
Einstein, non a caso, riteneva ci fosse un legame profondo tra scienza e fede; un po’ come la diversità che c’è tra il guardare e il vedere; un po’ come la diversità che tra fratelli.
Eppure Einstein sottolineava come la fede integrasse la ricerca scientifica su due livelli almeno: esistenziale (perché ci si libera dall’io per dedicarsi appunto alla ricerca) ed intellettuale (perché le leggi matematiche si legano al mondo fisico reale).
In questa chiave di lettura torna alla mente una frase recente del premio Nobel Parisi il quale non ha nascosto di prediligere la teoria per cui “Dio non è neanche una ipotesi”.
Ma la domanda sorge spontanea dato il parallelo che si può creare tra quest’ultima frase, il livello intellettuale teorizzato da Einstein e l’esperienza di San Tommaso.
Perché esiste l’universo e da cosa origina?
Ovviamente di riflesso la domanda può estendersi all’umanità e alla vita in quanto tale.
La scienza è, ormai, giunta a decifrare che il tutto origina da buchi neri; dal rapporto continuo che c’è tra caos e catastrofi; dal perenne conflitto che c’è nei moti di rivoluzione, ecc.
Già, ma questo al massimo spiegherebbe l’origine e non il perché. Se l’origine è il buco nero, questo va definito esistente od inesistente?
Perché a seconda dell’uno e/o dell’altro l’umanità sceglie il motivo dell’origine.
Nel primo caso, allora, l’umanità fallisce nella misura in cui legittima di credere in ciò che convenzionalmente e concettualmente non può spiegare. Cioè il buco nero.
Nel secondo caso tende al reale, ma non potrà accedere al vero. Il motivo è semplice: l’inesistente non è alla portata dell’uomo perché implica, per forza di cose, l’avere fede nella ricerca. La quale ultima non ha fine, non in termini di scopo, ma di confine materiale.
Si badi bene, che in quest’ultimo caso la ricerca è l’unico elemento di verità per la vita umana. Proprio perché ne è la genesi stessa senza soluzione di continuità.
Domando, a questo punto (con estrema umiltà e voracità del voler sapere), se invece non sia l’umanità stessa ad essere una ipotesi della divinità?
Ma chi ha fede non se lo domanda perché è una strada fuorviante e che implicherebbe una distorsione della pace sia interiore che esteriore.
Inevitabilmente si rischierebbe di cadere nel cercare la ragione per l’esistente invece che per l’inesistente. Una sorta di materialismo esasperato. Una dimensione forsennatamente senza fine. In buona sostanza, si assisterebbe ad un processo di giustificazione del cercare che non equivale, concretamente, a dimostrazione del cercato.
Ecco che scienza e fede sono due facce della stessa medaglia: l’empirismo della divinità.
La spiegazione dell’inesistente nell’esistenza.
Dove la prima spiega cosa ma non il perché. La seconda, invece, il contrario.
Solo insieme possono indirizzare la via dell’umanità. Con le rispettive velocità e mentalità.
È questa la radice della fratellanza: affermare la legittimazione a spiegare il reale, ma è la verità che spiega l’inesistenza.
La risposta è, quindi, nella domanda. Perché ci siamo?
Come Abele, siamo destinati a morire.
Ma se abbiamo fede, nostro fratello Caino ci salverà. Perché in lui c’è il perdono, c’è il volto di colui che si annebbia per il reale trascurando che il vero è in ciò che lega. Caino è il senso dell’esistenza. Traduzione plastica della missione di Abele (servire “al” fratello col proprio sacrificio).
Non a caso ne parla la Genesi. Un fatto reale, quest’ultimo, che ci racconta come la vita elevata a sacro assume di per sé una dimensione inaccessibile senza impegnarsi nella speranza. Che è fede.
La stessa che aveva Einstein con la sua storia.
E questa non è certo una ipotesi dell’ipotesi.
[Avvocato, Martina Franca, Taranto]