“Gli atti di fede aumentano e migliorano la fede individuale”.
È una frase, tra le più belle, che si trova (quasi come fosse una periferia saggistica) tra le parole di una ampia riflessione su quanto la testimonianza convinta, alla fine, converta chi non crede alla funzione del bene.
Il saggio è di Papa Francesco, si titola “Dio nella Città”.
Ma si potrebbe opinare, maliziosamente o meno, che senso ha credere in un “Signore presente” se la realtà ci pone la sfida costante delle guerre, della miseria, della incapacità di controllarsi dall’avidità del comando sull’altrui corpo?
È questa una domanda lecita. Tuttavia scontata.
La ragione sta nel suo opposto. Qual è la formula felice del non credere ad un Dio presente? Proprio nel rassegnarsi alla guerra, alla miseria, alla sopraffazione dell’altro.
Il caso Ucraina non è l’unico. Non è neanche l’ultimo o il primo.
La storia è piena di mistificatori della testimonianza del proprio credere in Dio (ci si riferisce ai potenti temporali).
Allora il concetto di “periferia” ci aiuta a capire come quel Dio in cui certi regnanti dicono di credere non altro è l’autocelebrazione dell’onnipotenza da una parte e dell’impotenza dall’altra parte. Una sorta di mix di arroganza e presunzione posti in esaltazione cronica della propria ricerca di affermazione divina (ma come direbbe il buon Totò si è tutti in ’A livella). Quindi, quello raccontato in quest’ultimo passaggio, non è Dio. Non può esserlo. Piuttosto si tratta di ciò che l’Uomo, portatore dei suoi peccati (e a volte crimini), dice di volere. Potremmo quasi scomporre la parola nel senso che Dio, per questi uomini, diventa ciò “che dico Io”.
La storia ci dice molto del presente e di come la ciclicità delle generazioni ci pone sempre davanti ad una sola domanda: a cosa serve la croce o a cosa è funzionale come testimonianza?
Una prima risposta potremmo ricavarla dall’inizio di questa riflessione: comprendere il valore delle periferie (siano esse esistenziali o fisiche o di altro genere).
La guerra è l’esempio più attuale: il centro, dove si esercita il comando ed il potere, si indirizza al soggiogamento dei popoli, delle terre, ecc. verso i confini. Proprio le periferie. Di questo si tratta.
Possibile che un Dio possa consentire tutto ciò?
Eppure le guerre dipendono dalle persone.
Abbiamo tutti, per convertire, la c.d. possibilità di testimonianza. Proprio perché crediamo che Dio sia a nostra immagine e somiglianza e viceversa.
Ma alla domanda posta sopra non è questa la risposta pragmatica. La risposta potrebbe essere solo nella funzione della croce.
Qui c’è tutta la sofferenza che, se davvero siamo disposti a comprenderla fino in fondo, ci porta su una sintesi: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
Rimane, però, da ascoltare l’insegnamento di quel grido di tanti secoli fa rispetto ai giorni nostri.
Ci ricordiamo tutti Gesù Cristo quando sulla croce non esitava a chiedere al Padre “perché mi hai abbandonato” (Heloì Heloì lamà sabachtani?)?
L’abbandono può essere interpretato con diverse sfumature.
Immaginiamo un chicco di grano nel deserto. Cosa fa? Tenta di vivere o non nasce? E se non nasce ci si può azzardare a dire di chi è la colpa (cioè se del chicco o del deserto in quanto tale)?
“Se il chicco di grano caduto a terra non muore – egli dice ai Greci giunti a Gerusalemme – resta solo; se invece muore, porta molto frutto” (Gesù sa, si ricava dal Vangelo di Giovanni, che l’universo è retto dalla stessa forza di morte e resurrezione).
Ecco, ci sono due cose che emergono da questa frase così semplice ma di portata universale: la solitudine del chicco è una condizione eventuale della vita; la morte, invece, è un fatto inevitabile ma che proprio per la sua inevitabilità non può non “servire” (ad esempio alla nuova vita).
Un’ultima domanda quindi: se non ci fossero le periferie, i poteri come potrebbero sfruttare la solitudine dei chicchi di grano?
A volte tocca proprio a questi chicchi, come le periferie, andare nel deserto non per germogliare, ma per testimoniare che anche il deserto può rinunciare alla sua aridità per fare posto all’accoglienza di un potere diverso: il rispetto della solitudine.
Oggi la guerra in Ucraina ci pone davanti agli occhi, dopo tanti secoli, una nuova croce.
Alla resistenza toccherebbe il ruolo di “diventare peccato” (come dice Paolo), salire sulla Croce, entrare nella morte, vincere la morte e il peccato di coloro che inquietano e minano la solitudine delle “terre del grano”.
La risposta alla disumanità della guerra, allora, si trova nella speranza del risorgere; quasi come quella spiga che prova la funzione della metamorfosi.
Processo, quest’ultimo, compiutosi con angoscia sovrumana anche nel Figlio di Dio.
Rivoluzionariamente parlando la morte di Gesù ci ha istruiti alla pace.
Cosa che alcuni credenti dimenticano difronte al valore del chicco di grano (senza il quale, prima o poi anche il potente rimarrà a digiuno).
[Avvocato, Martina Franca, Taranto]