La stragrande maggioranza dei commenti europei e italiani sembra avere già scritto la narrazione della politica estera durante la presidenza Trump. Tanto più che — dati alla mano — il «trumpismo» non è un accidente della storia, ma rappresenta una svolta comportamentale dell’elettorato e dei suoi valori di riferimento, come peraltro dimostrano i risultati elettorali in tanti angoli d’Europa, dalla Francia alla Germania, dall’Italia a diversi Paesi dell’est europeo.
Qualche voce isolata (il Manifesto) si consola con il fatto che Trump non potrà essere rieletto un’altra volta e durerà al massimo quattro anni. Ma si dimentica, come ha scritto il Los Angeles Times, che il suo vice Vance, probabile candidato alla successione, oltre ad essere molto più giovane, è ideologicamente ancora più radicale sui temi dell’immigrazione, della sicurezza, dell’aborto e della politica estera. È il politico che, ad esempio, ha detto che se Zelensky gli telefona, lui nemmeno gli risponde.
E si dimentica inoltre che Trump dispone di pieni poteri come quasi nessuno dei predecessori, praticamente senza i contrappesi fondamentali di una società democratica. Maggioranza del voto popolare, maggioranza al Senato, maggioranza alla Camera, giudici della Corte Costituzionale, media (da Fox News a X), tecnologie (con il suo grande sponsor Musk) e così via.
In pratica, un’ «autarchia» democraticamente eletta, la più potente del mondo, si aggiungerà a dittature e autarchie che già condizionano la vita e le scelte strategiche globali. Come minimo, sempre più spese militari e sempre meno attenzione alla transazione energetica e all’emergenza climatica. Intanto il bitcoin è esploso e le azioni delle energie rinnovabili sono in ribasso.
Ma che cosa significa, sopratutto per noi europei e italiani, fare i conti con il «trumpismo», al di là di ogni becera esultanza (a destra) e di ogni sprezzante giudizio sul popolo ignorante (a sinistra)?
Come dicevamo, la narrazione già scritta racconta, in sintesi, che dovremo sbrigarcela da soli per quanto riguarda difesa europea, contributo finanziario alla Nato e molto probabilmente costi della ricostruzione dell’Ucraina. Si prevede poi che i dazi sulle importazioni metteranno in crisi il nostro export agroalimentare, tessile, manifatturiero e automotive. Quanto al Medio Oriente, Israele avrà sostegno incondizionato e sempre più le mani libere, cancellando di fatto il sogno già effimero di uno Stato palestinese e aprendo a dismisura il fronte contro l’Iran. Trump cercherà il dialogo con Putin, rimescolando le carte dei rapporti diplomatici e commerciali con la Russia e la Cina. Infine, il nostro impegno per il clima subirà un’inevitabile battuta d’arresto, dato che il «trumpismo» significa anche ricadute sulle borse, sul dollaro, sul deficit pubblico americano, sulle fonti energetiche tradizionali, mentre l’Europa del patto di stabilità e della Bce non ha nemmeno gli strumenti giuridici per affrontare la nuova situazione. Resta il rapporto Draghi sulla competitività, per ora un quaderno delle buone intenzioni.
È un quadro a tinte fosche, pieno d’ incognite, che potrebbe essere meno preoccupante soltanto confidando sul pragmatismo affaristico dello stesso Trump, magari indotto alla prudenza dai suoi consiglieri più esperti e intelligenti. Ma in questo quadro, resta una domanda di fondo, che inevitabilmente ricorre all’indomani della scelta del nuovo inquilino della Casa Bianca. Una volta riaffermati i capisaldi storici e irreversibili della politica europea — alleanza atlantica e amicizia con gli Stati Uniti — sarà necessario anche questa volta adeguarsi?
Se davvero l’Europa sarà costretta ad uno sforzo finanziario per la difesa e probabilmente a sopportare il peso più importante della ricostruzione dell’Ucraina, non potrebbe essere questa l’occasione per costruire una politica estera e rapporti economici e finanziari più autonomi e meno condizionati dalla Casa Bianca? È stato probabilmente eticamente giusto assecondare la politica americana di sostegno a Kiev, ma sarà ancora eticamente giusto cambiare rotta quando Trump stringerà la mano a Putin?
Se il «trumpismo» è un valore di riferimento anche per l’elettorato europeo, quali valori civili e culturali (diritti delle donne, integrazione, protezioni sociali, assistenza medica, economia sociale di mercato, libertà di opinione e così via) l’Europa è ancora in grado di difendere e di offrire come modello alternativo a un mondo inclinato verso il nazionalismo identitario e la negazione di valori occidentali? Sono domande che prescindono da simpatie e apparenze politiche e che vorrebbero mettere in discussione l’ automatismo delle reazioni ai risultati delle elezioni Usa. Importerebbe meno quanto sia grande e duratura l’influenza del trumpismo, se l’identità europea prescindesse dalla confusione sotto il cielo della Pennsylvania o del Michigan.
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