I solchi disegnati sulla sabbia con un ramoscello, i mandala riempiti con tinte colorate, un quadro che a mano a mano viene costellato di dettagli; sono modalità esecutive riconducibili su, un piano immediato, alla libera espressione. Ciò è assolutamente vero per la maggior parte di noi anche se, alla luce della psicoanalisi, questa definizione si dimostra parziale. Alla stregua dei gesti inconsulti, delle libere associazioni o di parole decontestualizzate, il disegno può essere considerato una mappa per far emergere e interpretare l’inconscio. Nella seduta psicoanalitica l’inconscio si può quindi manifestare non solo con la parola, verbale o scritta, ma pure con un atto creativo. L’atto creativo porta con sé implicazioni di natura filosofica. Esso, più della creazione che ne sarà conseguenza, permette al soggetto – all’Io – di instaurare un rapporto con ciò che è esterno alla mente, di essere parte agente, dialetticamente, con la realtà del mondo. Così il soggetto si riconosce vivo. Se ci rifacciamo all’interpretazione che del presente da Byung-Chul Han – il filosofo del superamento della biopolitica foucaultiana – apprendiamo come l’essere umano stia, a poco a poco, abbandonando gli elementi che lo uniscono al reale.
«Nella nostra cultura dell’eccitazione post-fattuale, la comunicazione è dominata da impulsi ed emozioni forti, che al contrario della razionalità sono poco persistenti in termini temporali. Per cui destabilizzano la vita. Anche la fiducia, le promesse e le responsabilità sono prassi impegnative, che si estendono oltre il presente giungendo al futuro. Tutto ciò che stabilizza la vita umana è impegnativo.» (B. C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Torino, Einaudi, 2023, p. 10)
Le storie su Instagram durano ventiquattr’ore, gli aggiornamenti sulla politica estera delle pagine Telegram avvengono ogni pochi minuti, i messaggi dai gruppi Whatsapp arrivano ogni pochi secondi. L’inafferrabile è la cifra del presente. La conoscenza è degradata ad informazione. Quasi niente del mondo virtuale di social e cloud può essere facilmente ancorato a terra per essere elaborato e fissato; le informazioni sfuggono di mano come l’acqua o il vento.
L’odierno capitalismo dell’immateriale dissocia l’Io dal mondo, piegandolo a mero esecutore di una prestazione continua. Quest’ultima ha due caratteristiche: la bulimia e la rappresentazione egocentrica di sé stessi. Entrambe, spesso, agiscono in sinergia all’interno di una miriade di azioni. Nella natura del soggetto di prestazione il dover dimostrare agli altri la sua capacità di avere o fare è intimamente legata all’angoscia di sentirsi continuamente confermato come parte di una qualche comunità; esso abbandona fiero una parte della sua personalità per adeguarsi al senso comune di essa. Il prezzo di non venire riconosciuti come pari è più alto di quello di sentirsi liberi di agire secondo le proprie inclinazioni.
Per Han i disturbi mentali proliferati da questo stato della contemporaneità sono il burnout, la sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività, oltre all’aumento dei casi di depressione. Chi vive per dare una prestazione si esaurisce, si scava dentro pur di mostrarsi, intrattiene un rapporto con gli altri non per crescere e maturare ma per gareggiare, rifugge sé stesso per le opinioni esterne; difatti, per il filosofo «il depresso è privo di forma, è amorfo. È un uomo senza carattere».
Per riuscire, pian piano, a chiudere il cerchio e tornare ai disegni della psicoanalisi è necessario fare riferimento al concetto di «sé creativo», elaborato da Donald Winnicott. L’«oggetto transizionale» – il postulato teorico più noto dello psicanalista britannico – è un oggetto concreto, una coperta o un orsetto di pezza, che il bambino usa come ponte per sganciarsi dallo stadio di egocentrismo radicale in cui ritiene che tutto ciò che percepisce dell’esterno sia una proiezione della propria mente, riuscendo nell’arduo compito di riconoscere che la madre e ciò che sta fuori non sono pura soggettività ma realtà oggettiva, condivisa. La creatività del bambino si manifesta in un momento successivo; secondo Winnicott, il sé creativo rappresenta l’espressione autentica e spontanea dell’individuo, in contrasto con il falso sé, che si sviluppa come adattamento, autoimposto e coatto, alle aspettative esterne. Il sé creativo è chiamato anche appercezione termine con cui si indica l’atto riflessivo con cui l’individuo diviene consapevole delle sue percezioni: il bambino ha uno sviluppo positivo in questo senso quando i genitori riconoscono i suoi sforzi e lui stesso si sente gratificato dall’attenzione che i genitori mostrano nei suoi confronti. Diversamente il falso sé o compiacenza – il desiderio di far cosa gradita agli altri, anche se non del tutto sinceramente – si genera quando il bambino è costretto a rinunciare alla propria spontaneità per suscitare l’attenzione dei genitori o in un contesto educativo fatto di regole troppo restrittive. Infatti:
«È l’appercezione creativa, più di ogni altra cosa, che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta. In contrasto con ciò vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo ed i suoi dettagli vengono riconosciuti solamente come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede un adattamento. La compiacenza porta con sé un senso di futilità per l’individuo e si associa all’idea che niente sia importante […].» (D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1974, p. 119.)
È questa la fase dello sviluppo emotivo del bambino dove si sviluppano simboli, arte, cultura e creatività. Questo spazio è lo stesso in cui, crescendo, l’individuo può continuare ad esprimere la propria autenticità attraverso attività artistiche, intellettuali o anche semplicemente vivendo a modo suo. In una riflessione di carattere più globale e transgenerazionale, sostiene ancora Winnicott che:
«Una creazione può essere un quadro o una casa o un giardino o un costume o un modo di pettinarsi o una sinfonia o una scultura; qualunque cosa a partire da un pranzo cucinato in casa. […] La creatività di cui mi occupo io qui, è universale. Appartiene al fatto di essere vivi.» (D. W. Winnicott, Gioco e realtà, cit., p. 123)
Han, per parte sua, interpretando l’oggi, capovolge così il costrutto dell’oggetto transizionale:
«Gli oggetti transizionali promuovono una relazione con l’Altro. Con lo smartphone intratteniamo, di contro, una relazione narcisistica. Esso reca molte analogie coi cosiddetti «oggetti autistici» […]. Agli oggetti autistici manca la dimensione dell’Altro. Non stimolano nemmeno la fantasia. Con loro si instaura un rapporto ripetitivo, non creativo. È proprio la ripetizione, la coazione a caratterizzare la relazione con lo smartphone.» (B. C. Han, Le non cose, cit., p. 32.)
Alla luce di questa digressione risulta chiaro che l’atto creativo non è solo una forma di sviluppo evolutivo necessaria al bambino per accedere a uno stadio cognitivo più maturo, ma è un qualcosa che deve essere protetto e costudito nel tempo dell’età adulta, minacciato dall’appiattimento della fantasia proprio della ripetitività del mondo virtuale con cui giorno per giorno ci confrontiamo.
L’atto creativo dimostra la volontà dell’individuo di voler restare unito al mondo, una solidità che impedisce di crollare nella labilità psicologica. In proposito, un esempio certo elitario quanto significativamente paradigmatico è dato dal ciclo di disegni che Roberto Bazlen, umbratile fondatore dell’Adelphi, ha elaborato per le sue sedute di psicanalisi con Ernst Bernhard. I disegni furono una richiesta dell’analista per riuscire a mettere in luce un inconscio criptato come quello dell’editore triestino.
L’esistenza di Bazlen, letteralmente fusa ai libri, densa di appunti e riflessioni su di essi, aveva fatto diventare ipertrofica la sua capacità di scrivere, tanto da rendere la relazione scritta dei suoi sogni assolutamente inaccessibile alle lenti interpretative di Bernhard poiché, con un’abilità così raffinata del narrare, egli era perfettamente in grado di mascherare le ambiguità che l’inconscio poteva far emergere. Questo non era cosa da poco se si considera che fra i pazienti dell’analista tedesco vi erano campioni della cultura italiana come Federico Fellini, Natalia Ginzburg o Amelia Rosselli. D’altra parte, una forma espressiva inusuale per Bazlen come il disegno, diveniva la modalità pratica per mettere sotto scacco l’Io – che attraverso la scrittura mascherava l’Es – e rendere intellegibile l’inconscio grazie al fatto che nel disegno, il paziente, volente o nolente, non sarebbe stato in grado di filtrare e separare l’esprimibile dal censurabile.
I sogni disegnati da Bazlen riportano sulla carta un mondo esoterico, colorato e a tratti inquietante, fatto di alcuni temi e figure ricorrenti: omini stilizzati e senza volto; l’abbozzo di un cinese con baffi sottili e lunghissimi; il tema dell’acqua, con tutto ciò che ad essa è legato, i pesci, le barche, le canne da pesca. Quale sia l’interpretazione di questi sogni fatti con gli acquarelli è tema per specialisti. Non importa questo. Ciò che importa è che Bazlen abbia accettato di trovare la strada per riconiugarsi con la saldezza del mondo, attraverso un atto creativo, attraverso la possibilità di immaginare, oggi sempre più raminga. In proposito una frase dell’editore vale per tutto quanto è stato scritto:
«Un tempo si nasceva e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi.»
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