L’atomica che abbiamo nel cuore, di Alessandro D’Avenia

Il male assedia le nostre vite. Una guerra in seno all’Europa e una appena fuori. Studenti in crisi e genitori disarmati. Una lettrice mi confida di accarezzare il suicidio. Un amico con un tumore a uno stadio avanzato. Essendo impotente di fronte a tutto questo, potrei diventare cinico, e non fare ciò che il Nobel per la letteratura, il poeta russo Josif Brodskij, condannato ai lavori forzati negli anni ‘60 e poi esiliato dal suo Paese, riteneva essere l’impegno politico di uno scrittore: «Scrivere cose belle». Questo lo posso fare, non contano le opinioni ma le azioni, conta solo quanta bellezza ho fatto oggi, perché la bellezza è l’origine della speranza, e la speranza è l’origine di nuova bellezza.
Questo è il circolo virtuoso del creare, perché la bellezza è amore incarnato (bella è una carezza, una pagina, una cena, una rosa…), compimento di un pezzetto di mondo che invece di morire si salva, e chiunque vuole essere toccato da questa salvezza. Infatti se una cosa bella mi tocca voglio fare altrettanto. Nei paesi un tempo si impediva a una donna incinta di guardare cose brutte: per generare (il) bene bisogna essere prima ri-generati. E allora prendo la penna per provare a costruire uno spazio in cui la bellezza potrebbe magari accadere. Salverà il mondo? No. Ma forse me. Come?
Matthew Perry, trovato morto nella Jacuzzi della sua villa, aveva fatto ridere milioni di persone in una delle serie più fortunate della storia della tv, Friends. In una intervista del 2022 aveva detto: «Quando morirò, non voglio che Friends sia la prima cosa per cui si parli di me, ma per aver aiutato chi soffre di dipendenza dall’alcol». Suo padre non gli aveva trasmesso altro che sbronze e abbandono, e quella contro alcol e droghe è stata la sua lotta per salvarsi e salvare il mondo. Il suo talento straordinario per la recitazione gli dava pace perché poteva essere un altro, uno che dà agli altri la gioia che lui doveva conquistarsi con tutta la pelle. La lotta per trovare la pace, questo era il suo lavoro, per questo voleva essere ricordato.
Gli fa eco l’ultimo premio Nobel per la letteratura, lo scrittore norvegese Jon Fosse, che ha raccontato di essersi liberato dell’alcol solo dopo esserne quasi morto. La scrittura lo ha salvato perché gli ha consentito di «liberarsi» dell’alcolizzato, per lui infatti scrivere si è rivelato ascoltare una voce che lo trascende, e infatti lo ha portato a Dio: «Sono stato un ateo convinto, ma era un modo troppo semplice di vedere le cose, soprattutto per uno scrittore. Prego tutti i giorni, vado a messa una volta a settimana. Mi dà pace, ed è tutta la vita che la cerco».
Cerchiamo la pace, e le nostre scelte autodistruttive sono spesso lenitivi per non sentire disprezzo verso noi stessi o dimenticare che ci stiamo disintegrando: «Quando giravo il mondo – dice Fosse in una recente intervista– con le mie opere teatrali ero quasi sempre solo. La mia unica compagna era una bottiglia di whisky». Salvarsi è trovare integrità, unire i pezzi dell’esistenza, riparare la dis-integrazione di corpo, mente e cuore, le tre dimensioni dell’umano che solo quando vanno insieme danno pace, cioè salvezza.
I primi cristiani per salutarsi si auguravano la pace e non erano sentimentali: augurare la pace è impegnarsi a trovare unità in sé e con gli altri. Non è diverso da «Salve!», cioè «sii salvo», parola antichissima che non significava altro che «integro», «unito». Il contrario di salvarsi è infatti dis-integrarsi e dis-integrare: fare a pezzi. E così dove non c’è pace nel singolo non può essercene tra parenti, vicini, popoli.
La linea che separa il bene dal male non è quella che le guerre impongono, ma è nel nostro cuore. Una linea che separa la vita dalla morte e che decidiamo noi, ogni giorno, dove spostare. Non è possibile eliminare il male dal mondo, ci hanno provato invano tutte le ideologie più sanguinarie perché poi il male lo proiettavano su qualcuno, invece è possibile comprimerlo nel proprio cuore. È il lavoro del Piccolo Principe che ogni mattina deve estirpare i germogli di baobab per evitare che, crescendo, disintegrino il suo pianeta.
Le radici del male sono nel cuore e ci saranno sempre, il nostro compito è tagliarle ogni giorno. Cristo lo ha detto così: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro. Dal cuore degli uomini escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, distruzione» (Mc 7).
È inutile voler cambiare il mondo, serve invece cambiare dentro di sé ciò che si vuole vedere cambiare nel mondo: vuoi la pace? Falla dove sei, nella riunione di condominio. Fare la pace è fare qualcosa che rende integro un pezzetto di mondo, fare la guerra è disintegrarlo.
Come mostra Cristopher Nolan nel suo recente film Oppenheimer la bomba atomica è prima nel cuore dei suoi creatori e solo dopo in quello di una testata sganciata sul Giappone. Così è e sarà sempre, da Caino in poi: la pace e la guerra che sono attorno a me escono da me. Basta risalire dal frutto di un’azione sino alla sua radice, il cuore, per scoprire dove ho messo la linea che separa vita e morte, quella vita e quella morte che, dopo, ho dato al mondo. Dall’avanzare di quella linea verso la vita, in ogni cuore, ogni giorno, dove e come posso, dipende la pace del mondo.

https://www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/23_novembre_06/177-atomica-cuore-808a03d6-7c1d-11ee-8eea-fc9ff09b1145.shtml

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