Il 12 febbraio si è concluso in Cassazione il processo penale contro l’intera esperienza di accoglienza costruita nel corso di un ventennio a Riace, un piccolo paese della Locride. La Corte ha confermato la sentenza di appello emessa a Reggio Calabria nell’ottobre 2023, che aveva rovesciato il giudizio di primo grado emesso dal Tribunale di Locri due anni prima e aveva assolto gli imputati dai reati gravissimi che quel giudizio aveva loro attribuito, dall’associazione a delinquere alla truffa al peculato (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/13/ce-un-giudice-a-reggio-calabria/).
La Cassazione ha infatti respinto il ricorso della Procura Generale che chiedeva un nuovo appello; ha anche respinto il ricorso della difesa di Lucano, che contestava l’unica responsabilità residua che l’appello gli attribuiva, un falso relativo ad una sola determina di consiglio comunale (su 60 messe sotto accusa) per un concerto, con una condanna a 18 mesi con sospensione della pena.
Si chiude così un processo anomalo, che aveva voluto a tutti i costi portare alla sbarra l’esperienza di Riace e l’azione pubblica del suo sindaco Domenico Lucano, nonostante l’indagine investigativa fosse stata giudicata priva di prove credibili in varie sedi, a partire dallo stesso Gip di Locri (https://volerelaluna.it/controcanto/2018/10/10/la-giurisdizione-alla-prova-del-caso-riace/). Si era cercato in ogni modo di affermare che l’accoglienza a Riace era una truffa, uno dei tanti casi di business dell’accoglienza, con l’aggravante che qui si trattava di un caso diventato famoso. Per questo il processo è stato accompagnato da una feroce campagna mediatica che ha cercato in ogni modo di denigrare quel sistema di accoglienza, e in modo particolare il suo sindaco, dipinto come un avido approfittatore che dietro una parvenza di azione umanitaria perseguiva in realtà un arricchimento personale. Con la sentenza di Cassazione cade in modo definitivo e clamoroso l’impianto accusatorio del Tribunale di Locri: l’accoglienza a Riace non era una truffa, e il sindaco Lucano non era un truffatore. Non solo non c’è stato nessun arricchimento personale ma, afferma la sentenza d’appello ora confermata, l’azione di Lucano si è caratterizzata per «l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto» e «l’indiscutibile intento solidaristico», che lo ha portato a realizzare a Riace «un’economia della speranza». Viene così restituita verità a Riace e a Lucano.
Eppure era una verità semplice da vedere, saltava agli occhi di tutti. Allora come spiegare un tale accanimento, che ha comunque richiesto tante forzature e tanti rovesciamenti di senso? Perché serviva un caso esemplare, e Riace era per l’appunto un bell’esempio. Intanto nell’intento: dimostrava infatti che l’arrivo dei migranti poteva essere visto non come un’invasione ostile, ma come un’opportunità di sviluppo per tutta la comunità. Ma questo diventa un messaggio scandaloso quando, a partire dal 2017, l’anno del Memorandum con la Libia e dei «taxi del mare», il paradigma delle politiche migratorie cambia radicalmente rispetto agli anni di Mare Nostrum, e si orienta ai respingimenti, al rifiuto di soccorso, ai porti chiusi. E poi nello spirito: per invalidare questo messaggio, infatti, non c’è niente di meglio che riuscire a dimostrare che l’accoglienza è sempre questione di affari privati, che è tutta una finzione in vista di ingiusti profitti. Se si riesce a dimostrare che persino Lucano è un profittatore corrotto che usa i migranti per arricchirsi, davvero non si potrà più pensare che qualcuno agisca per spirito genuinamente solidaristico.
Così il processo contro Riace è diventato un caso esemplare di quella criminalizzazione della solidarietà cui assistiamo da anni in Italia e in Europa, in cui la giustizia si esercita in quella «logica del nemico», come l’ha definita Luigi Ferrajoli, che tanta parte ha assunto nelle politiche di questi anni verso i fenomeni migratori (https://volerelaluna.it/commenti/2019/04/29/domenico-lucano-litalia-la-giustizia/). In questo senso, è stato fin dall’inizio un processo politico, che sempre oppone due visioni, idee contro altre idee. Non sono gli atti, che peraltro l’imputato rivendica, al centro della sua attenzione; né i moventi, visto che manca qualsiasi prova che Lucano si sia mosso per interesse. Il processo ha voluto screditare l’idea di accoglienza praticata a Riace, che aveva trattato gli stranieri non come ospiti, ma come parte integrante della comunità, coinvolti nei suoi stessi destini, perché smentiva quella paura dell’invasione che giustifica respingimenti e difesa delle frontiere contro le migrazioni.
Che questo processo politico sia stato smontato dalla Corte d’appello e dalla Cassazione, è un’ottima notizia; restituisce fiducia ad un sistema giudiziario che rischia di perderne parecchia quando si mette al servizio di scelte politiche congiunturali. Rimane l’ingiustizia di un processo politico doloroso, inutile e soprattutto ingiustificato, che ha interrotto un percorso di riscatto di un’intera comunità. E rimane l’incredulità di fronte a una campagna mediatica di denigrazione che continua perfino sulla sentenza di Cassazione, e spara in questi giorni titoli a raffica sulla «condanna definitiva del modello Riace», che invece è stato definitivamente assolto. Evidentemente Riace fa ancora scandalo, perché quel paradigma di disumanità che dal 2017 in poi si è voluto perseguire contro le migrazioni continua purtroppo a dominare con i respingimenti, i sequestri e le deportazioni di oggi.
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