Per affrontare un problema, bisogna prima capirlo. E non è facile capire cosa succederà, non solo in America, con la nuova presidenza di Donald Trump. Sebbene quest’ultimo sia conosciuto, essendo già stato presidente, il fenomeno politico che rappresenta rimane sconosciuto. Si potrebbe parlare di un caso di “known unknown”, si conosce il problema ma non in cosa consista. Due esempi.
Primo. Sappiamo che Trump non rappresenta la vecchia destra conservatrice, ma non sappiamo quale nuova destra sta emergendo dal connubio tra potere politico e tecnologico da lui rappresentato. Il trumpismo non è la replica, con attori diversi, della tradizionale convergenza tra interessi politici ed economici, come è avvenuto nella storia del capitalismo. Piuttosto, esso esprime un cambiamento di paradigma (qualitativo e non quantitativo), in cui la distinzione tra politica ed economia è sempre meno evidente.
Da sempre, l’economia ha cercato di condizionare la politica, talora controllando agenzie importanti di quest’ultima e talaltra influenzando il suo processo elettorale. Da sempre, la politica ha risposto a quei condizionamenti, introducendo regole (antitrust, ad esempio) o intervenendo negli assetti proprietari dell’economia (nazionalizzandola, ad esempio). Economia e politica hanno agito come due attori distinti che, pur combattendosi, hanno finito per dare vita al capitalismo democratico che abbiamo conosciuto fino a ieri. Il trumpismo cambia la natura di quel capitalismo, dando vita ad una configurazione di potere in cui la politica e l’economia si confondono all’interno di piattaforme globali di informazione e comunicazione. Il potere di Elon Musk non risiede nelle tecnologie industriali che lo hanno reso ricco, ma in quelle che alimentano la sua rete informativa (il social X, peraltro in perdita) o la sua infrastruttura comunicativa (Starlink). Con Jurgen Habermas, si potrebbe dire che le nuove tecnologie hanno sostituito lo spazio pubblico pluralista con una sfera globale di formazione gerarchica dell’opinione pubblica (una gerarchia che viene imposta anche agli altri capitalisti). Il consenso è creato dalle tecnologie, non dalle elezioni, secondo la logica di un “capitalismo post-democratico”. Una logica che sfugge alla nostra premier, visto che non riesce a distinguere tra chi (come Elon Musk) crea un’opinione pubblica globale e chi (come George Soros) contribuisce alle campagne elettorali o all’iniziative culturali di candidati e associazioni. Sappiamo come regolare le attività della ricchezza che cerca di influenzare la politica (di destra o di sinistra, non ha importanza), ma non sappiamo come regolare, tanto meno impedire, la coincidenza tra tecnologia (della nuova ricchezza) e politica (della vecchia democrazia).
Secondo. Di sicuro Trump non rappresenta il vecchio leader conservatore, ma l’interpretazione della sua nuova leadership rimane inconclusa. Ci hanno provato, su “Foreign Policy”, Daniel Drezner (della Tufts University) parlando di “teoria del pazzo” (Madman Theory) e Stephen Walt (della Harvard University) di “teoria del bullo” (Bully Theory). Seconde queste teorie, Trump usa l’aggressività per mettere i suoi avversari in condizioni di inferiorità, così da imporre le sue richieste prima ancora di negoziarle. Donald Trump ricorse a tale approccio durante il suo primo mandato, ad esempio promettendo di «cancellare dalla carta geografica» la Corea del Nord se non avesse smesso di minacciare l’America. La cosa non funzionò, tant’è che dal confronto trasse vantaggio Kim Jong Un piuttosto che Donald Trump. Questa volta, Trump ci prova di nuovo, alzando ancora di più la voce. In una sola intervista, ha minacciato di bombardare Gaza «come mai è stato fatto», se Hamas non si arrenderà; di prendersi «anche con la forza» la Groenlandia e il Canale di Panama, se i rispettivi governi non accetteranno di vendere quei “territori” all’America; di «imporre dazi senza precedenti» (fino al 150 per cento) ai prodotti cinesi esportati in America, se il governo cinese non la smetterà di finanziare le sue imprese. Per Stephen Walt, il bullismo può dare risultati nel breve periodo, e solamente in alcuni casi, ma prima o poi è destinato a suscitare la formazione di una coalizione di Paesi per contrastarlo, visti i costi interni che essi finirebbero per sostenere se l’assecondassero. Inoltre, l’unilateralismo transazionale (in virtù del quale Trump vuole negoziare Paese per Paese) è destinato ad incontrare vincoli legali (nell’Unione europea, la competenza per il commercio è della Commissione europea e non già dei governi nazionali) ma anche difficoltà operative (è impossibile controllare la coerente implementazione di negoziati bilaterali fatti con una moltitudine di singoli governi nazionali). Ma soprattutto per Walt, la teoria del bullo non può caratterizzare la politica estera di una potenza nucleare. Sarebbe troppo pericoloso. Eppure, per Drezner, la teoria del pazzo funziona solamente se la pazzia è reale, altrimenti le minacce non producono i risultati attesi. Di sicuro Trump cercherà di rendersi imprevedibile, ma non è sicuro che tale imprevedibilità possa rimanere entro i confini della razionalità politica. Perseguire una relazione speciale con un leader con tali caratteristiche, come cerca di fare la nostra premier, non appare consigliabile.
Insomma, con Trump, siamo entrati in una terra incognita senza una mappa per orientarci. È certo che essa non è in vendita a Bruxelles.
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