Il Vangelo odierno: In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. (Mc 6, 30-34 – XVI TO/B).
Quali sono le “pecore senza pastore”? Così come ne parla il Vangelo, l’essere senza pastore è sinonimo di abbandono, di mancanza di cura da parte di un altro, di stato di bisogno. Geremia (23), a nome di Dio, rimprovera i pastori che hanno “disperso le pecore, scacciate e non se ne sono preoccupati”. Nella Scrittura le pecore sono senza pastore, in termini crudi, per colpa dei pastori, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.
Per chi è senza pastore Gesù sente “compassione”. Gesù vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano “come pecore che non hanno pastore”. Gli studiosi sono concordi sul considerare quella compassione come una vera e propria tenerezza. Gesù sentì tenerezza per coloro che erano come pecore senza pastore. Gesù sentì compassione e tenerezza per coloro che i pastori avevano dimenticato o maltrattato o rifiutato o condannato o escluso, e via discorrendo. Non mancano gli abbandonati oggi! Anche noi spesso lo siamo. E lo siamo insieme a quelli che hanno bisogno di tenerezza più di noi: i poveri, gli ultimi, i migranti sui barconi, gli anziani e i malati gravi soli, per malattia o scomparsa di familiari e cosi via. Papa Francesco direbbe le vittime del nostro sistema che crea “scarti”, a ogni piè sospinto.
Non ci manca la Parola di Dio, non ci mancano pastori e profeti. Forse ci manca la tenerezza. Sarà forse per questo che la cattiveria e le violenze crescono nel mondo. Non lo dico solo in riferimento a chi è cattivo, violento, razzista, chiuso agli altri; ma mi riferisco anche a quella cultura ostile e di rifiuto che si respira in ambienti cosiddetti sani (penso ad alcune comunità cattoliche o a certi ambienti di sinistra) dove di tenerezza… non se ne vede neppure l’ombra. Anzi, proprio dove meno te l’aspetti, le bocche si aprono per proferire violenze e cattiverie su tutti e le mani si chiudono per sferrare pugni. Mio Dio!
Non so se dopo la pandemia (e durante) siamo diventati più cattivi; certo è che chi incita all’odio e al razzismo – sia un ministro, un vescovo, un prete, un fedele laico o un cittadino qualsiasi – anche inconsciamente ci spinge a diventare più cattivi e razzisti. C’è quindi una grossa crisi culturale e come cristiani non possiamo né tacere, né far finta di niente. Altro che applaudire e sostenere i neofascisti populisti che cavalcano la scena mondiale.
Gesù mostra tenerezza per tutti, non solo per i lontani. Infatti agli apostoli dice: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. E lo dice a coloro che sono da poco ritornati dalla missione che aveva loro affidati. Che delicatezza! Che tenerezza!
Si può imparare, la tenerezza? Nei nostri ambienti ho spesso sentito risposte del tipo: impariamo da Gesù – imitiamo Lui – preghiamo perché ci renda più teneri. Risposte certamente sacrosante. Ma non bastano. Aiutati che Dio ti aiuta, si dice. Ciò significa che dobbiamo imparare a guardarci dentro, a essere onesti con noi nel riconoscere tutte le cattiverie, rifiuti, odi, razzismi e antipatie che coviamo. Dobbiamo riconoscerle ed educarci a gestirle, superarle. Non è un lavoro facile, ma nemmeno impossibile. Con l’aiuto di Dio si fanno miracoli in sé e negli ambienti in cui viviamo.
Etty Hillesum, nella tragicità di un lager, riesce a sentire “un’infinita tenerezza” e sceglie, così, di essere il “cuore pensante dell’intero campo di concentramento”. Testimonianza sublime, ma non per questo lontana ed inutile per la nostra esperienza quotidiana. La sua tenerezza non nasce sull’onda di un contesto sano e portatore di amore e accoglienza, tutt’altro. Nasce , allora, come sfida di una persona, che nel suo sentire e pensare, non vuole rassegnarsi alla violenza e al male. E’ tenera perché ha un cuore pensante e il suo sentire e pensare sono profondi. E ancora ci insegna vigilanza per non perdersi nei grandi problemi e “ricuperare i nostri stretti confini e continuare dentro di essi scrupolosamente e coscienziosamente – la nostra vita limitata”. Leggo questo passo come invito a difendere strenuamente le fonti, personali e relazionali, della tenerezza; a portare nel pubblico i suoi frutti più maturi, senza sciuparli o svenderli, con uno stile sobrio e profondo. E’ l’invito ad accarezzare chi ce lo chiede con lo sguardo, a curare chi ci svela le sue ferite, nel corpo e nello spirito. Ad amare con tenerezza.
Rocco D’Ambrosio
[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]