Quando nel XIII secolo i testi di Aristotele iniziarono a riemergere e a circolare nelle università europee vi arrivarono accompagnati dai commentari dei filosofi islamici. Questo fatto accentuò il senso di distanza e incompatibilità dell’aristotelismo con la tradizione teologica cristiana che in quegli anni aveva l’impronta inequivocabile del pensiero di Agostino di Ippona.
Le divergenze aumentarono col passare del tempo fino a sfociare in una aperta condanna dell’aristotelismo da parte dei pensatori agostiniani diffusi sia tra i domenicani ma, soprattutto, tra i francescani. Solo una figura come quella di Tommaso d’Aquino avrebbe potuto sanare, anche se a caro prezzo, la separazione teoretica tra Agostino e Aristotele e quella culturale tra la scuola teologica e filosofica domenicana e quella francescana.
L’influsso di Alberto Magno e la «libertà» dall’auctoritas
Un ruolo centrale ebbe nella sua formazione di giovane studioso la frequentazione con Alberto Magno di cui fu studente a Colonia tra il 1248 e il 1252. Il Doctor Universalis – così veniva chiamato Alberto – aveva intrapreso un’azione di valorizzazione della teologia agostiniana attraverso il ricorso alle sue fonti originarie neoplatoniche, contribuendo in questo modo a rinvigorire la tradizione filosofica del vescovo di Ippona. Il secondo tratto dell’approccio di Alberto è la sua relativa libertà nei confronti dell’autorità aristotelica che venne messa più volte messa in discussione soprattutto con riferimento alle sue opere di botanica e astronomia. Questa libertà si fondava su un’altra caratteristica del metodo di Alberto, e cioè quella di riferirsi quanto più possibile alle opere originali di Aristotele piuttosto che a quelle dei suoi commentatori. Occorreva che Aristotele parlasse con la propria voce non distorta dall’interpretazione di alcuno.
Per queste ragioni, quando Tommaso d’Aquino si trovò davanti al compito di affrontare queste due tradizioni filosofiche così diverse e, per certi versi, incompatibili, egli era già abituato a comprenderle entrambe dall’interno, per così dire. Come ci ricorda Alasdair MacIntyre al riguardo «Forse nessun altro nella storia della filosofia si è mai trovato in una situazione del genere, e le domande che, di conseguenza, deve essere stato indotto a formulare puntavano verso una concezione della verità, indipendente da ognuna delle due tradizioni» (Who’s Justice, Which Rationality?, 1988, p. 168).
Il concetto di giustizia in Tommaso d’Aquino
Anche Tommaso, nella sua ampia, sistematica e articolata discussione dell’idea di giustizia parte dal concetto tradizionale inteso come «volontà costante e perpetua di riconoscere a ciascuno il suo diritto» (Ulpiano), ma inserisce il tema nella discussione delle virtù e della legge naturale. Giustizia, infatti, per Tommaso è «un habitus dal quale derivano certe operazioni dei giusti, e mediante il quale essi operano e vogliono le cose giuste». Una concezione molto simile a quella aristotelica ma integrata dalla dimensione dell’intenzionalità, legata alla teoria della voluntas agostiniana. La giustizia nasce dalla volontà di fare il bene, associata alla “parte più nobile dell’anima” come la definisce Tommaso, in opposizione alle spinte egoistiche. Ecco perché la giustizia è una questione di virtù e tutte le virtù sono collegate ad essa.
Quali sono, dunque, in questo quadro, le caratteristiche della giustizia? Tommaso ne individua principalmente tre: in primo luogo, la giustizia è virtus ad alterum, è una virtù relazionale, il suo contenuto, il comportamento che prescrive e l’habitus che genera, cioè, esercitano una ricaduta diretta sugli altri, non solo su sé stessi. E però, non si può essere giusti con gli altri se non lo si è, prima di tutto, proprio con sé stessi. Da qui l’importanza del legame con le altre virtù personali. Ma la giustizia non è solo apertura volontaristica e caritatevole verso gli altri. Non può essere ridotta ad una questione di generosità e benevolenza; essa sostanzia un obbligo, un dovere di responsabilità verso ciò che è dovuto. In questo senso Tommaso «separa nettamente la giustizia dalla generosità, l’obbligatorietà del bene, dall’arbitrarietà del sentimento», come bene sottolinea Giovanni Cucci («I variegati aspetti della giustizia. La riflessione di Tommaso d’Aquino». La Civiltà Cattolica, n. 4109, 2021, Volume III).
La dimensione collettiva e “soggettiva” della giustizia
Infine, la giustizia per Tommaso, come per Aristotele che la vedeva legge prima della polis, ha una dimensione primariamente collettiva. In questo senso essa governa tre relazioni fondamentali della nostra vita in comune: le relazioni tra i singoli (giustizia commutativa), quelle della società verso i singoli (giustizia distributiva) e, infine, le relazioni dei singoli verso la società (giustizia legale) (cfr. Cucci, G. 2021). Il fatto che la giustizia prescriva di dare a ciascuno il suo, implica la necessità di capire cosa sia per ciascuno il “suo”.
Significa essere in grado di separare lo jus dalla jus-titia, ciò che prescrive la regola astratta da ciò che richiede la sua applicazione al caso concreto. Il rischio altrimenti è quello del diritto impersonale, incapace di valutare caso per caso le vere esigenze di giustizia. “Summum Ius Summa Iniuria” (“il sommo diritto è somma ingiustizia”) sentenziava a proposito Cicerone nel De Officiis. Anche qui Tommaso, coi suoi distinguo si rifà ad Aristotele e al suo esempio del metro dei muratori di Lesbo che, diversamente dagli altri diffusi al tempo, non era fatto di legno o di ferro ma di una qualità di piombo caratteristica per la sua malleabilità.
In questo modo il metro poteva adattarsi alle caratteristiche del materiale che avrebbe dovuto misurare, in maniera flessibile, tutt’altro che rigida. «In effetti, il motivo per cui non tutto è definito dalla legge – scrive Aristotele nell’Etica Nicomachea – è che ci sono casi specifici per i quali è impossibile porre una questione di diritto, quindi un decreto è essenziale. Di ciò che è, infatti, indeterminato, anche la regola è indeterminata, come la regola del piombo usata nelle costruzioni di Lesbo: così come la regola segue i contorni della pietra e non è rigida, così il decreto si adegua ai fatti. Aristotele era convinto che etica e politica non avessero lo stesso grado di accuratezza della matematica. Per questo non si può ragionare in questi ambiti come lo si farebbe in una governata da regole chiare e universali. Occorre invece cercare di determinare cosa deve essere fatto in casi particolari, a partire da quelle regole generali.
Tommaso adotta lo stesso approccio: «Poiché il discorso sulle questioni morali anche nei loro aspetti universali è soggetto a incertezza e variazione (…) il giudizio sui singoli casi deve essere lasciato alla prudenza di ciascuno».
L’esempio della proprietà privata
Un interessante caso a questo riguardo è la dottrina che l’Aquinate elabora a proposito della legittimità della proprietà privata che è, per diritto “potestas procurandi et dispensandi”, ma che, al contempo, è sottoposta all’obbligo di non restringere l’uso delle ricchezze alle proprie esigenze personali “quantum ad usum non debet homo habere res exteriores ut proprias, sed ut communes: ut scilicet de facili aliquis ea communicet in necessitate aliorum”.
Un concetto ormai entrato nella tradizione della Dottrina Social della Chiesa attraverso soprattutto le encicliche sociali «Rerum Novarum» che cita espressamente Tommaso a questo riguardo e la Quadragesimo Anno, che ribadisce la distinzione tra diritto di proprietà e uso della stessa proprietà, subordinato alla destinazione universale dei beni come, del resto, ribadito dal Concilio Vaticano II i cui padri nella Gaudium et Spes scrivono: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati devono equamente essere partecipati a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità».
Giustizia e carità, beni privati e bene comune. Una eredità forse troppo radicale per la nostra modernità, laica ma dalle radici cristiane? Uno scandalo davanti alle disuguaglianze dell’oggi? Tommaso e i Padri, come vedremo nelle prossime settimane, possono offrire un orizzonte ancora fecondo per una riflessione seria su questi temi.
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Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.