Israele vuole la guerra, quindi. O, probabilmente, non la maggior parte della popolazione israeliana ma di certo il premier Bibi Netanyahu e il suo governo di nazionalisti estremisti e avventuristi. In due giorni, due attacchi dello stato ebraico sembrano aver spazzato via ogni speranza di una tregua per far finalmente tacere le armi dopo lunghi mesi di conflitto.
Se l’attacco contro Hezbollah, che ha portato all’uccisione a Beirut di Fuad Shukr, considerato il numero due del movimento, era una risposta attesa, dopo il massacro di dodici bambini drusi, colpiti da un razzo della milizia sciita, l’assassinio a Teheran del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, non ha giustificazioni di sorta.
Colpirlo nella capitale della Repubblica islamica d’Iran, ove si era recato per assistere alla presa di servizio del nuovo presidente, il moderato riformista Massoud Pezeshkian, è un atto di terrorismo internazionale. Inutile giocare con le parole, né serve a giustificazione ricordare l’ideologia criminale di Haniyeh. Questo atto, soprattutto, mostra la deliberata volontà della destra israeliana di mettere la pietra tombale su ogni iniziativa di pace. Era del resto chiaro da mesi: Netanyahu ha bisogno che la guerra continui per rimanere al potere, sperando che le elezioni presidenziali statunitensi del prossimo novembre consegnino la vittoria a Donald Trump, notoriamente schiacciato sulle posizioni israeliane più radicali.
Ma ha bisogno di continuare a combattere, allargando se necessario il conflitto, anche perché la guerra non sta andando come previsto. Nonostante la strage infinita di decine di migliaia di donne, uomini e bambini palestinesi inermi a Gaza, Hamas non è sconfitto e i suoi capi militari – primo fra tutti Yehiya Sinwar – non sono stati eliminati.
Imprigionati nella loro ossessione per ottenere una schiacciante vittoria militare che vendicasse i terribili eccidi dello scorso 7 ottobre, i vertici della destra israeliana hanno abbandonato alla loro sorte gli ostaggi catturati, mentre i costi sociali ed economici della mobilitazione dei riservisti e dell’evacuazione dei villaggi lungo il confine settentrionale si fanno sempre più alti. Quanto sembra non essere compreso in Israele è che Hamas è anche e soprattutto una ideologia, che non viene cancellata dai massacri e dagli assassini, ma anzi si alimenta e si radicalizza ulteriormente.
Inoltre, l’attacco a Teheran ridicolizza nuovamente la capacità difensiva del regime iraniano, incapace di bloccare o di limitare gli attacchi israeliani nel suo territorio; allo stesso tempo, umilia il nuovo presidente moderato, assestando un colpo immediato a chi – in Iran – vorrebbe una politica estera meno avventurista e radicale rispetto a quella imposta dalla Guida suprema, Ali Khamenei, e dai pasdaran. Ma umiliare il nemico iraniano difficilmente lo renderà più prudente; anzi, quanto ci si può aspettare è un ulteriore inasprimento della guerra per procura, adesso sempre più diretta, fra i due nemici.
Tanto in Medio Oriente quanto in Occidente, si rincorrono ora affannosamente i tentativi di salvare i negoziati di pace.
L’amministrazione Biden ha nuovamente alzato i toni, pretendendo che si arrivi presto a un cessate il fuoco. Parole vuote, dato che il presidente Biden è indebolito dalla mancata ricandidatura e dalla consapevolezza che tutti hanno che il partito democratico non può certo inimicarsi la lobby filo-israeliana alla vigilia delle elezioni. La verità è che il governo israeliano sa di avere la totale impunità, quali che siano le decisioni prese. L’unica arma che funzionerebbe sarebbe il blocco da parte di Washington degli aiuti economici e militari, ma si tratta di un’ipotesi del tutto irrealistica.
Soffiare sul fuoco dei troppi incendi che divampano nel Medio Oriente è una strategia pericolosa e folle: servirà forse agli interessi degli estremisti presenti in ogni fazione contrapposta, ma i prezzi saranno pagati inevitabilmente dalle popolazioni locali, quale che sia la loro etnia, religione e idea politica. Deprime l’incapacità dell’Occidente, dei Paesi arabi moderati e delle Nazioni Unite – sempre più deboli e inascoltate – di imporsi quali mediatori credibili ed efficaci. Ma credere nella pace significa anche riprendere a riannodare i fili spezzati con l’ostinata speranza che la ragionevolezza possa prima o poi trovare uno spiraglio.
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