Il Vangelo odierno: In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5,1-12).
Scriveva Pavel Evdokimov: Quando si parla di santità si opera una specie di blocco psicologico. Si pensa ai giganti di un tempo, eremiti e stiliti, gli uni sepolti nelle caverne, gli altri posti sulla loro colonna, tanto che questi “illuminati, uguali agli angeli”, non sembrano più di questo mondo. La santità sembra sorpassata, senza appartenere ad un mondo divenuto estraneo, inadattabile alle forme discontinue e al ritiro sincopato della vita moderna… il santo è visto come un essere inutile.
Forse molto della festa odierna sta in questa affermazione del grande teologo orientale. Abbiamo un blocco psicologico nei confronti della santità. Alcune volte sembra quasi insormontabile: essere santi non è per me. Punto e basta. E, allora, che fare? Si potrebbero usare tante vie. Quella del Vangelo odierno sembra essere la beatitudine, ossia la felicità. Il termine “beato”, infatti, significa ossia “felice, sereno”.
Per comprendere l’approccio evangelico è necessario liberarci di alcuni condizionamenti, contemporanei, relativi alla felicità: ci riferiamo in particolare a quattro di essi: il ritenere la felicità uno stato della mente indipendente dalla nostra volontà, più o meno sottoposto al “caso”; uno stato svuotato di qualsiasi contenuto etico e spesso legato a percorsi di puro piacere; uno stato che difficilmente supera i confini individuali, per cui parlare di una città o di una comunità felice, sembra quasi senza senso; uno stato dipendente dalla disponibilità di risorse per lo più materiali. Diversi economisti oggi mettono in dubbio l’idea che la felicità dipenda principalmente dal reddito disponibile. Essi lo ritengono valido solo per ristretti casi di reddito sotto una certa soglia, mentre, per la stragrande maggioranza dei casi, invitano a misurare la felicità partendo dagli aspetti relazionali della persona e della qualità della sua vita.
Quindi non sono felice perché sono ricco, mi sto divertendo, non ho problemi, tutto va per il verso giusto e così via. Tutt’al più queste situazioni possono contribuire alla mia felicità, a mo’ di corona di una sostanza che è altra. Sono felice, infatti, perché faccio del bene, in forma stabile, non perché ho dei beni. Questi aiutano la mia felicità ma non sono indispensabili. Solo in quest’ottica si può comprendere il brano delle beatitudini (Mt 5): Gesù proclama beati, felici (makàrioi) coloro che vivono situazioni difficili, anche in stato di privazione di beni fondamentali. Non c’è santità che non ci porta un po’ di serenità e felicità, certamente insieme a prove. Ma non lo facciamo per le prove, ma per essere sereni e felici in Dio. Nonostante tutto. La beatitudine, felicità deriva, infatti, dall’essere fedeli al Regno di Dio e al bene che si sta realizzando in noi e attorno a noi. Eccola la santità. Eccola, anche, la felicità!
Rocco D’Ambrosio
[presbitero, docente di filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; presidente di Cercasi un fine APS]